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È una lunga prosa scritta nel 1916 come dedicatoria della
Leda senza cigno, e come "licenza" segue il racconto a
stampa, benché sia riuscita lunga due volte e mezzo di
più. Scritta dopo il Notturno, di cui anticipa qualche
brano, ma pubblicata cinque anni prima della stesura
definitiva di quel volume, ne ripete (o ne anticipa) i
modi di diario impressionistico; ma stesi in un discorso
che di quanto vuol essere più ampio, altrettanto si salva
nella grazia di una perfetta divagazione. Occasione prima
della prosa è la visita che, a Venezia, nel 1916,
convalescente il poeta della ferita per cui ha perso un
occhio, gli fanno due donne belle e soavi, a lui care
negli anni francesi dell'anteguerra e chiamate,
accarezzandole fin nei nomi, Chiaroviso e Nontivolio. Così
avviene che il poeta, ripreso in mano il racconto La Leda
senza cigno scritto negli anni felici, a Chiaroviso lo
manda in dono ripubblicato in volume. Occasione poetica
della Licenza sono essenzialmente le impressioni della
vita di ieri contrappuntate dalla diversa malinconia della
vita di guerra, non senza che l'una malinconia sfumi
nell'altra, e questa acquisti di grazia, quella di
acredine, in un perpetuo fluire e rifluire del ricordo nel
sogno, e del reale oggi in entrambi. Per l'autore della
Contemplazione della morte e della Leda notturna, anche la
guerra vale ormai soprattutto perché conduce l'anima "alla
familiarità della morte", cioè nel ritmo e nel tono della
sua nuova poesia; e quanto ai motivi ideali della guerra.
"La vita non è un'astrazione di aspetti e di eventi, ma è
una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a
tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare,
da mangiare", è detto nella Licenza (e ripete il Notturno:
che sembrerebbe il tema di un'alcaica del Canto novo, se
un'ombra di ripiegamento interiore non sostituisce
l'antico fervido riversarsi sul mondo esterno; più
veramente un riassorbire il mondo esterno e trasmutarlo
"in un sentimento che è musicale come le cadenze delle
lamentazioni". Tale è infatti la sorta di "spiritualizzamento"
operato, qui nel ritmo, altrove in "chiarore diffuso",
sulle corporee cose che empiono il libro. Del quale
dunque, caduta ogni altra sorta di spiritualità e di
ragionamenti astratti, altro conviene leggere
poeticamente: la stessa ebrezza di donarsi all'azione,
musa dei discorsi di guerra, qui è soltanto una trama di
quell'animo che dall'ombra della morte si volta a
riassaporare la vita. Come ebrezza, il poeta la rinnega
("Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Dov'è la
pace, non può essere l'ebrezza"); in suo luogo vorrebbe
per sé altro sentimento, che accorgersi di non averlo è
crearlo almeno nel desiderio, la pace in luogo del
fervore, il silenzio in luogo del canto. Perciò non
disturba che i primi ricordi guerrieri, quelli della
Francia invasa, restino in secondo piano accanto ai
levrieri e ai cavalli, rapidi balzanti come "il principio
di un'ode"; o disturba in relazione al proposito civico,
esso però, e non quelli, falso di tono. Non mai come in
questo libro i paesi, distrutti guerreggiati invasi, o
prossima preda alla distruzione, furono creatura di carne
carnalmente amata; e gli infiniti aspetti della laguna, il
dondolio di una gondola, e pecore, rondini, eleganze
squisite di donne, il senso smarrito di sé camminando a
paro con i soldati, certe ore di tedio che nel ricordo
diventano intense come musiche. Più che la grazia, su cui
viene inserita, della struttura a divagazioni, è questa
ripullulante ricchezza della materia poetica a compensare
i luoghi sfocati; talché l'opera rimane nel ricordo
certamente minore al Notturno, di quanto i modi divagativi
meno aderiscono alla sensibilità impressionistica che sta
a base di entrambi i libri: ma ne costituisce comunque
un'alta conclusione (o premessa), ricantando con meno cupo
senso della morte che nel Notturno, però sempre in chiave
di malinconia e d'ombra, l'innamorata aderenza alla vita
sensibile cantata in chiave di splendore nel libro di
Alcione.
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