Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Licenza
 

È una lunga prosa scritta nel 1916 come dedicatoria della Leda senza cigno, e come "licenza" segue il racconto a stampa, benché sia riuscita lunga due volte e mezzo di più. Scritta dopo il Notturno, di cui anticipa qualche brano, ma pubblicata cinque anni prima della stesura definitiva di quel volume, ne ripete (o ne anticipa) i modi di diario impressionistico; ma stesi in un discorso che di quanto vuol essere più ampio, altrettanto si salva nella grazia di una perfetta divagazione. Occasione prima della prosa è la visita che, a Venezia, nel 1916, convalescente il poeta della ferita per cui ha perso un occhio, gli fanno due donne belle e soavi, a lui care negli anni francesi dell'anteguerra e chiamate, accarezzandole fin nei nomi, Chiaroviso e Nontivolio. Così avviene che il poeta, ripreso in mano il racconto La Leda senza cigno scritto negli anni felici, a Chiaroviso lo manda in dono ripubblicato in volume. Occasione poetica della Licenza sono essenzialmente le impressioni della vita di ieri contrappuntate dalla diversa malinconia della vita di guerra, non senza che l'una malinconia sfumi nell'altra, e questa acquisti di grazia, quella di acredine, in un perpetuo fluire e rifluire del ricordo nel sogno, e del reale oggi in entrambi. Per l'autore della Contemplazione della morte e della Leda notturna, anche la guerra vale ormai soprattutto perché conduce l'anima "alla familiarità della morte", cioè nel ritmo e nel tono della sua nuova poesia; e quanto ai motivi ideali della guerra. "La vita non è un'astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare", è detto nella Licenza (e ripete il Notturno: che sembrerebbe il tema di un'alcaica del Canto novo, se un'ombra di ripiegamento interiore non sostituisce l'antico fervido riversarsi sul mondo esterno; più veramente un riassorbire il mondo esterno e trasmutarlo "in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamentazioni". Tale è infatti la sorta di "spiritualizzamento" operato, qui nel ritmo, altrove in "chiarore diffuso", sulle corporee cose che empiono il libro. Del quale dunque, caduta ogni altra sorta di spiritualità e di ragionamenti astratti, altro conviene leggere poeticamente: la stessa ebrezza di donarsi all'azione, musa dei discorsi di guerra, qui è soltanto una trama di quell'animo che dall'ombra della morte si volta a riassaporare la vita. Come ebrezza, il poeta la rinnega ("Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Dov'è la pace, non può essere l'ebrezza"); in suo luogo vorrebbe per sé altro sentimento, che accorgersi di non averlo è crearlo almeno nel desiderio, la pace in luogo del fervore, il silenzio in luogo del canto. Perciò non disturba che i primi ricordi guerrieri, quelli della Francia invasa, restino in secondo piano accanto ai levrieri e ai cavalli, rapidi balzanti come "il principio di un'ode"; o disturba in relazione al proposito civico, esso però, e non quelli, falso di tono. Non mai come in questo libro i paesi, distrutti guerreggiati invasi, o prossima preda alla distruzione, furono creatura di carne carnalmente amata; e gli infiniti aspetti della laguna, il dondolio di una gondola, e pecore, rondini, eleganze squisite di donne, il senso smarrito di sé camminando a paro con i soldati, certe ore di tedio che nel ricordo diventano intense come musiche. Più che la grazia, su cui viene inserita, della struttura a divagazioni, è questa ripullulante ricchezza della materia poetica a compensare i luoghi sfocati; talché l'opera rimane nel ricordo certamente minore al Notturno, di quanto i modi divagativi meno aderiscono alla sensibilità impressionistica che sta a base di entrambi i libri: ma ne costituisce comunque un'alta conclusione (o premessa), ricantando con meno cupo senso della morte che nel Notturno, però sempre in chiave di malinconia e d'ombra, l'innamorata aderenza alla vita sensibile cantata in chiave di splendore nel libro di Alcione.
 

 

Luigi De Bellis