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(Le martyre de Saint-Sébastien). Opera teatrale di
Gabriele D'Annunzio scritta in versi francesi,
rappresentata a Parigi nel 1911 (da Ida Rubinstein) con
musiche di Claude Debussy (1862-1918) e pubblicata nello
stesso anno. Contemporaneamente fu pubblicata la
traduzione italiana di Ettore Janni. Atteggiato a
medievale "mistero", si divide in cinque "mansioni" e un
prologo-preghiera come di prammatica: vi vediamo
Sebastiano compiere e incontrare vari miracoli, ricalcando
talora episodi dei Vangeli, finché nella quarta mansione
viene ucciso per ordine dell'imperatore dagli arcieri
ch'egli ama riamato, e nell'ultima sale in Paradiso fra i
cori angelici. Ma del giovane santo si conosce soprattutto
(anzi soltanto) la bellezza narcisistica e adonia, il
languore che lo empie e ne emana, l'estasi voluttuosa che
i profumi dei gigli, l'aura dei supplizi incombenti, del
sangue versato, degli struggimenti, lacrime e contorsioni,
acuiscono di dolce ferocia. Il clima (e qualche episodio)
arieggia insomma alcunché della Nave, non senza ricordo
della wildiana Salomè: e sarebbe stato strano che il
misticismo dell'opera, pur contro le intenzioni
dell'autore, non fosse apparso, in tali condizioni,
sacrilego. Ma in sede letteraria, pur non appartenendo al
più poetico D'Annunzio, l'opera altrimenti importa:
perché, riprendendo la forma teatrale, lascia cadere
deliberatamente le aspirazioni a una coerenza narrativa e
drammatica, riconoscibili anche testé in Fedra. Dallo
stesso autore, nel prologo, le cinque mansioni son
definite "cinque vetrate"; se sempre i fatti, l'intreccio,
nel D'Annunzio drammatico e narrativo si risolsero -
tipicamente nella Figlia di Iorio - in decorazione, qui
tutto vuol essere esplicitamente decorazione: l'uso
erudito e alessandrineggiante dell'antico francese
risponde, come dilettazione in margine, a questo
sovrapotere del decorativo. Ma l'effetto non è, o non è
soltanto, di erudito fastidio, come nella dilettazione
cruschevole del Secondo amante di Lucrezia Buti: perché la
sensualissima scrittura, come non contrasta a nessun'altra
volontà di costruzione e di racconto, come viene incontro
per conto suo alla frammentarietà della favola, così aiuta
la musica verbale in cui ogni momento di essa tende a
dissolversi, attenuandosi nel languore di quella musica
l'antico contenuto erotico-eroico-ferino, così reboante
nella Nave. Sovrapotere della decorazione e della musica:
si capisce dunque che il D'Annunzio abbia chiesto
collaborazione per quest'opera a una danzatrice come la
Rubinstein, che la rappresentò, e a un musicista, come il
Debussy, che la fornì di musicali commenti: come si
capisce che la frantumazione dell'intreccio in decorativo
e in musica è lo stesso processo che, a cominciare dal
Forse che sì forse che no, operava similmente sull'antica
prosa solare del romanziere. I toni languidi e teneri
nascono legittimamente, causa-effetto, sulla via di
codesta frantumazione: e qui si vede legittimo a suo modo
anche il sacrilego e sospiroso misticismo della
singolarissima opera, che meno sacrilego ma non meno
sospirosamente sensuale tornerà nella prosa "notturna"
della Contemplazione della morte. A riprova, non mancano
pagine di poetica suggestione, sempre nel musicale, nello
stilizzato e nel languido: il prologo, l'episodio dei due
gemelli, l'uccisione del Santo.
Nel Martirio di San Sebastiano, opera corrottissima, il
poeta sa pure, a più riprese, riscattarsi in un piano di
arte... Talvolta quel mondo lascivo e magico, martirio e
paradiso dei sensi, ha una malinconia alata e sorvolante
che è il tono della poesia. (F.
Flora)
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