Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Il piacere
 

È il primo dei tre Romanzi della Rosa di D'Annunzio  pubblicato nel 1889. La "rosa" allude alla voluttà, tema comune ed esplicito dei tre romanzi. Il conte Andrea Sperelli, poeta e acquafortista di raffinata sensibilità, a forza di sensuale egoismo giunge a una completa aridità morale, accresciuta dalla lucida ma impotente coscienza del proprio stato. Abbandonato nel colmo della passione dall'amante, Elena Muti, cerca invano dimenticarla in frivole avventure d'amore. Diviene l'amante riamato di una creatura nobilmente spirituale, Maria Ferres: ma l'antica passione si esaspera maggiormente in lui per la strana simiglianza esistente fra le due donne; talché su Maria egli arriva coscientemente a sfogare la libidine che ancor gli desta il ricordo di Elena. E nel punto in cui la nuova amante avrebbe più bisogno del suo affetto e del suo aiuto, uno scambio di nome sfuggito dalle labbra dell'uomo le fa chiara l'orribile verità. La debolezza del romanzo sta nell'idoleggiamento che il D'Annunzio vi compie di sé nella persona del protagonista; Andrea Sperelli è conte, è elegantissimo, è circondato di lusso, è alto di statura, come l'allora assai mondano D'Annunzio avrebbe desiderato di essere, e l'idoleggiamento di sé continua a rendere ambiguo il tono dell'analisi psicologica del personaggio, fra lo studio scientifico e la condanna morale; in quanto uomo, così rimane estranea alle corde del poeta: semplice presupposto tolto a prestito dagli atteggiamenti letterari di tanti romanzi dell'Ottocento, dalla Confessione di un figlio del secolo del De Musset all'Educazione sentimentale del Flaubert. Il difetto si aggrava evidentissimo dove si tratta di mettere in scena l'elemento spirituale, la bontà, tutte le cose in cui nome ha luogo la condanna; particolarmente nel tentato ritratto dei fascini spirituali di Maria Ferres, che non si accontentano di restare asseriti, ma ambiscono dettare pagine introspettive addirittura in forma di diario: facile soluzione, e già propria dei romanzi ameni. Tali pagine sono fra le più deboli del libro, e suggestione di poesia acquistano solo in quanto l'asserita spiritualità diviene nuovo pimento alla sensualità dell'uomo e nella stessa donna modo di voluttà e di languore. Qui è la forza del libro, nel senso amaro della voluttà, con meno fisica ferocia che nel San Pantaleone, ma più sottile, e con più struggente abbandono; e qui anche l'auto-analisi che il poeta compie in persona di Andrea Sperelli acquista quella verità di tono e di poesia che non aveva saputo raggiungere nell'Intermezzo di rime. E accanto all'amarezza, il fascino della voluttà, anzi questo in quella; a tale tema son riportabili infatti le pagine più celebri del romanzo, dove, fuori di ogni schema narrativo e dell'ipotetico intento di dare in Andrea Sperelli (come affermerà più tardi il D'Annunzio) un altro "giovin signore" come il Parini, nel Giorno musicalmente s'incontrano paesaggi e figurativamente musiche; specie i paesaggi di Roma, sotto il sole, sotto la neve, sotto la luna, le sue ville, i luoghi d'ozio, la molle magnificenza dei suoi monumenti barocchi. Son questi i momenti, foltissimi, per cui il romanzo vive ancora. Viene da questo libro, fra l'altro, la moda, che imperversò molti anni nei romanzi italiani, di nobilitare gesti, ambienti, paesaggi, con stucchevoli e continui riferimenti a quadri famosi. Certo impaccio a raccontare, che si avverte dove il modulo della prosa vorrebbe essere più narrativo, disturba meno, proprio in quanto nega la narratività e conferma lo specifico lirismo della situazione poetica; e così certe peculiarità di stile (per esempio l'abuso delle tronche) che interrompono di continuo il fluido ritmo del racconto per imporgliene un altro attento a raffinatezze puntuali.

Si suole affermare che artisti siffatti sono espressioni di tempi di decadenza; ma bisognerebbe dire invece, con maggior esattezza, che, quando essi sorgono, qualcosa in qualche animo deve essere decaduto. (B. Croce)

A giudizio concorde di critici vecchi e recenti, è riuscito il romanzo migliore, il romanzo più sincero, in cui l'estetismo del protagonista è ancora una fede sicura di sé, che lo porta a vivere con abbandono quel mondo di lusso e di voluttà, a cui egli, nelle sue ambizioni ingenue di barbaro inurbato, tende con incontenibile e fresca curiosità. (L. Russo)

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Il piacere non segue rigidamente l'ordine cronologico degli avvenimenti. All'inizio ci viene presentato il protagonista, il giovane conte Andrea Sperelli, che in un pomeriggio di dicembre (1886) attende nel suo raffinato appartamento in cima a piazza di Spagna, a Roma, la sua antica amante, la «divina Elena» che dopo il "gran gran commiato» della primavera dell'anno precedente ha casualmente incontrato, ricevendone la promessa di un abboccamento. Ma Andrea non ottiene da quest'incontro quel che sperava. Segue, giustificata dai dialoghi e dalle rievocazioni dei due protagonisti, la narrazione retrospettiva del loro precedente rapporto, che occupa i due primi "libri": l'incontro ad un ricevimento mondano; i convegni d'amore in contesti di sofisticata raffinatezza, l'improvviso congedo di Elena che, vedova del duca di Scemi, si è risposata per calcolo con lord Heathfield. Andrea quindi, ossessionato dai ricordi, si stordisce nella dissipazione erotica; e viene gravemente ferito in duello da un rivale. Durante la convalescenza in una villa al mare, in casa dl una cugina, conosce un'amica di questa, Maria Ferres (che con la sua bambina vi trascorre un periodo di vacanza), la cui spirituale bellezza lo affascina e della quale poi si innamora. Anche Maria - come apprendiamo dal suo diario - é conquistata dalle raffinate qualità di Andrea, che con squisito dilettantismo alterna le prove poetiche a quelle di incisore. Ma con l'autunno entrambi lasciano la villa. Ritornato a Roma (libro III). Andrea riprende la sua vita di disincantato piacere: incontra intanto Elena (è l'incipit sopra citato). Anche Maria è ora a Roma e Andrea con interiore ambiguità e freddezza incalza e circuisce l'una e l'altra. Alla passione sincera e profonda dì Maria risponde il raffinato e allucinato gioco erotico di Sperelli che utilizza Maria Ferres come sostitutivo e sdoppiamento di Elena Aiuti, traendo da questa operazione immaginativa nuove e tormentose eccitazioni». Quando nella prima notte d'amore con Maria, Andrea, nell'impeto della passione, si lascia sfuggire I'invocazione a Elena, tutto crolla: Maria inorridita fugge.

Andrea Sperelli è (è stato) il personaggio più noto e divulgato fra i tanti creati da D'Annunzio ed è il risultato di un'abile contaminazione fra esperienza biografica dell'autore (periodo della "Roma bizantina") e sollecitazioni culturali straniere. Egli rappresenta la versione italiana dell'eroe decadente e D'Annunzio non trascura occasione per mettere in luce la sua aristocratica ascendenza, la sua bellezza e gagliardia fisica, la preziosa raffinatezza del contesto in cui si muove, il suo strenuo impegno per dare alla vita una dimensione estetica. La singolarità dei gusti di Andrea Sperelli, il suo distacco dalla norma, sono tutte caratteristiche dell'eroe. decadente. europeo. ma D'Annunzio si sofferma a precisare delineando cosi una figura di artista non priva di implicazioni autobiografiche - che Sperelli è anche, con snobistico distacco quasi, un artista: «eleggeva nell'esercizio dell'arte gli strumenti difficili, esatti, perfetti. incorruttibili: la metrica e l'incisione. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero amava l'espressione. I suoi saggi letterari erano esercizi, giuochi, studi, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità». Anche per Sperelli valeva cioè quanto il suo creatore aveva dichiarato qualche anno prima in un sonetto dell'Isotteo: «divina è la parola / ne la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è tutto» (il Binni d'altra parte ritiene che «tutti i romanzi di D'Annunzio valgono più che altro come documenti della sua poetica»). Nel suo primo romanzo quindi «D'Annunzio riversò, come in una profonda miniera, e in modo ben diverso da quel che aveva già fatto Huysmans con A ritroso, tutto il grande fiume del decadentismo europeo. E ancora oggi sembra quasi incredibile la capacità di assorbimento dimostrata in pochi anni di apprentissage da quel giovane di venticinque anni».

Nella rappresentazione di Andrea Sperelli c'è però da parte del narratore una certa ambiguità, una sorta di oscillazione di prospettiva sulla quale è opportuno soffermarsi. Partiamo da un riferimento concreto: ad un certo punto del romanzo, di fronte ai tumulti avvenuti a Roma il 2 febbraio 1887 in conseguenza della strage di Dogali, Andrea Sperelli esprime il suo fastidio con la frase «Per quattrocento bruti, morti brutalmente!» diventata famosa per le risentite polemiche che provocò (la citò con riprovazione, a distanza di decenni, persino Croce nella sua Storia d'Italia del 1928). Ma alle critiche l'autore rispose dichiarando: «quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D'Annunzio, e sta bene in bocca di quella specie di mostro. Studiando quello Sperelli io ho voluto studiare, nell'ordine morale. un mostro». In realtà i giudizi di valore negativo sul protagonista e sull'ambiente da lui frequentato («malignità'». «indiscreta leggerezza». «cinica indifferenza») non sono assenti nel Piacere, e nella lettera dedicatoria a Francesco Paolo Michetti D'Annunzio definiva il romanzo «questo libro nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e crudeltà vane»: Se è vero che queste dichiarazioni per un verso trovano conferma in qualche valutazione come quelle sopra citate, è però altrettanto vero che il tono dominante, l'angolazione da cui D'Annunzio rappresenta il personaggio e il suo ambiente sono complessivamente ben altre. Vogliamo dire che la volontà, le intenzioni di analisi distaccata e di giudizio il più delle volte cedono il posto alla immedesimazione e alla complicità fra narratore e personaggio; personaggio nel quale vengono proiettate esperienze biografiche e gusti, atteggiamenti intellettuali che da una Infinità di testimonianze sappiano appartenere a D'Annunzio. A lettura finita, più che i giudizi di valore su protagonisti e ambiente, restano nella memoria del lettore gli indugi del narratore nel dipanare la vicenda «fra ville storiche, sale affrescate, concerti, preziosi oggetti di antiquariato» o il fatto che «i tratti fisici dei personaggi, i loro abiti, i paesaggi e gli interni vengono connotati il più delle volte mediante il confronto con opere d'arte; [e che] la citazione letteraria è un elemento costante dei dialoghi». Cioè quei personaggi e quell'ambiente sono realizzata esemplificazione di quella contaminazione tra arte e vita, di quell'estetismo che fu una costante del decadentismo. Né d'altra parte devono sorprendere, alla luce dei risultati, le dichiarazioni della lettera dedicatoria al Michetti: lo scarto fra intenzioni dichiarate e realizzazioni, fra poetica e poesia non è poi così raro nella storia letteraria e le oscillazioni tra velleità di giudizio e adesione, tra distacco e complicità non sono infrequenti (si pensi - ed è un riferimento che ci sembra particolarmente calzante per D'Annunzio - alla produzione di un regista come Visconti o alla conflittuale coesistenza di condanna e attrazione verso il "peccato" in scrittori di matrice religiosa come Fogazzaro o Tommaseo o Mauriac).

Proprio a questa trasfigurazione (o travestimento?) della realtà (di una realtà fra l'altro socialmente e storicamente individuabile) è finalizzato lo stile nel quale il ricorso al termine desueto o arcaico (renunziazione, serenare, palvese, transparenze, ecc.) svolge la stessa funzione che nella descrizione di un volto o di un atteggiamento svolge il richiamo all'opera d'arte famosa: nobilita, equipara la vita all'arte; lo stesso dicasi per le «gittate melodiche» che ricorrono spesso in questa prosa e per certe descrizioni paesistiche di tono pîù lirico che descrittivo.

Per quanto riguarda le tecniche narrative merita attenzione il fatto che nel romanzo coesistono il ricorso al narratore esterno e quello al narratore interno. Nella rappresentazione di Andrea Sperelli, D'Annunzio corre alla prima di queste tecniche e ciò gli permette un certo (relativo) distacco nei riguardi del protagonista, una possibilità di giudizio; invece la vicenda di Maria Ferres, i suoi turbamenti il suo innamoramento sono rappresentati anche col ricorso (libro II) al diario intimo che essa tiene (e quindi l'adozione della prima anziché della terza persona). Soluzione questa - «facile e già propria dei romanzi ameni», secondò E. De Michelis - che permette l'idoleggiamento del personaggio, l'insistenza alquanto manierata sulla sua squisita spiritualità, sulla sua "bontà".
 

 

Luigi De Bellis