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È il primo dei tre Romanzi della Rosa di D'Annunzio
pubblicato nel 1889. La "rosa" allude alla voluttà, tema
comune ed esplicito dei tre romanzi. Il conte Andrea
Sperelli, poeta e acquafortista di raffinata sensibilità,
a forza di sensuale egoismo giunge a una completa aridità
morale, accresciuta dalla lucida ma impotente coscienza
del proprio stato. Abbandonato nel colmo della passione
dall'amante, Elena Muti, cerca invano dimenticarla in
frivole avventure d'amore. Diviene l'amante riamato di una
creatura nobilmente spirituale, Maria Ferres: ma l'antica
passione si esaspera maggiormente in lui per la strana
simiglianza esistente fra le due donne; talché su Maria
egli arriva coscientemente a sfogare la libidine che ancor
gli desta il ricordo di Elena. E nel punto in cui la nuova
amante avrebbe più bisogno del suo affetto e del suo
aiuto, uno scambio di nome sfuggito dalle labbra dell'uomo
le fa chiara l'orribile verità. La debolezza del romanzo
sta nell'idoleggiamento che il D'Annunzio vi compie di sé
nella persona del protagonista; Andrea Sperelli è conte, è
elegantissimo, è circondato di lusso, è alto di statura,
come l'allora assai mondano D'Annunzio avrebbe desiderato
di essere, e l'idoleggiamento di sé continua a rendere
ambiguo il tono dell'analisi psicologica del personaggio,
fra lo studio scientifico e la condanna morale; in quanto
uomo, così rimane estranea alle corde del poeta: semplice
presupposto tolto a prestito dagli atteggiamenti letterari
di tanti romanzi dell'Ottocento, dalla Confessione di un
figlio del secolo del De Musset all'Educazione
sentimentale del Flaubert. Il difetto si aggrava
evidentissimo dove si tratta di mettere in scena
l'elemento spirituale, la bontà, tutte le cose in cui nome
ha luogo la condanna; particolarmente nel tentato ritratto
dei fascini spirituali di Maria Ferres, che non si
accontentano di restare asseriti, ma ambiscono dettare
pagine introspettive addirittura in forma di diario:
facile soluzione, e già propria dei romanzi ameni. Tali
pagine sono fra le più deboli del libro, e suggestione di
poesia acquistano solo in quanto l'asserita spiritualità
diviene nuovo pimento alla sensualità dell'uomo e nella
stessa donna modo di voluttà e di languore. Qui è la forza
del libro, nel senso amaro della voluttà, con meno fisica
ferocia che nel San Pantaleone, ma più sottile, e con più
struggente abbandono; e qui anche l'auto-analisi che il
poeta compie in persona di Andrea Sperelli acquista quella
verità di tono e di poesia che non aveva saputo
raggiungere nell'Intermezzo di rime. E accanto
all'amarezza, il fascino della voluttà, anzi questo in
quella; a tale tema son riportabili infatti le pagine più
celebri del romanzo, dove, fuori di ogni schema narrativo
e dell'ipotetico intento di dare in Andrea Sperelli (come
affermerà più tardi il D'Annunzio) un altro "giovin
signore" come il Parini, nel Giorno musicalmente
s'incontrano paesaggi e figurativamente musiche; specie i
paesaggi di Roma, sotto il sole, sotto la neve, sotto la
luna, le sue ville, i luoghi d'ozio, la molle magnificenza
dei suoi monumenti barocchi. Son questi i momenti,
foltissimi, per cui il romanzo vive ancora. Viene da
questo libro, fra l'altro, la moda, che imperversò molti
anni nei romanzi italiani, di nobilitare gesti, ambienti,
paesaggi, con stucchevoli e continui riferimenti a quadri
famosi. Certo impaccio a raccontare, che si avverte dove
il modulo della prosa vorrebbe essere più narrativo,
disturba meno, proprio in quanto nega la narratività e
conferma lo specifico lirismo della situazione poetica; e
così certe peculiarità di stile (per esempio l'abuso delle
tronche) che interrompono di continuo il fluido ritmo del
racconto per imporgliene un altro attento a raffinatezze
puntuali.
Si suole affermare che artisti siffatti sono espressioni
di tempi di decadenza; ma bisognerebbe dire invece, con
maggior esattezza, che, quando essi sorgono, qualcosa in
qualche animo deve essere decaduto. (B.
Croce)
A giudizio concorde di critici vecchi e recenti, è
riuscito il romanzo migliore, il romanzo più sincero, in
cui l'estetismo del protagonista è ancora una fede sicura
di sé, che lo porta a vivere con abbandono quel mondo di
lusso e di voluttà, a cui egli, nelle sue ambizioni
ingenue di barbaro inurbato, tende con incontenibile e
fresca curiosità. (L. Russo)
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Il piacere non segue
rigidamente l'ordine cronologico degli avvenimenti.
All'inizio ci viene presentato il protagonista, il giovane
conte Andrea Sperelli, che in
un pomeriggio di dicembre (1886) attende nel suo raffinato
appartamento in cima a piazza di Spagna, a Roma, la sua
antica amante, la «divina Elena» che dopo il "gran gran
commiato» della primavera dell'anno precedente ha
casualmente incontrato, ricevendone la promessa di un
abboccamento. Ma Andrea non ottiene da quest'incontro quel
che sperava. Segue, giustificata dai dialoghi e dalle
rievocazioni dei due protagonisti, la narrazione
retrospettiva del loro precedente rapporto, che occupa i
due primi "libri": l'incontro ad un ricevimento mondano; i
convegni d'amore in contesti di sofisticata raffinatezza,
l'improvviso congedo di Elena che, vedova del duca di
Scemi, si è risposata per calcolo con lord Heathfield.
Andrea quindi, ossessionato dai ricordi, si stordisce
nella dissipazione erotica; e viene gravemente ferito in
duello da un rivale. Durante la convalescenza in una villa
al mare, in casa dl una cugina, conosce un'amica di
questa, Maria Ferres (che con la sua bambina vi trascorre
un periodo di vacanza), la cui spirituale bellezza lo
affascina e della quale poi si innamora. Anche Maria -
come apprendiamo dal suo diario - é conquistata dalle
raffinate qualità di Andrea, che con squisito
dilettantismo alterna le prove poetiche a quelle di
incisore. Ma con l'autunno entrambi lasciano la villa.
Ritornato a Roma (libro III). Andrea riprende la sua vita
di disincantato piacere: incontra intanto Elena (è
l'incipit sopra citato). Anche Maria è ora a Roma e Andrea
con interiore ambiguità e freddezza incalza e circuisce
l'una e l'altra. Alla passione sincera e profonda dì Maria
risponde il raffinato e allucinato gioco erotico di
Sperelli che utilizza Maria Ferres come sostitutivo e
sdoppiamento di Elena Aiuti, traendo da questa operazione
immaginativa nuove e tormentose eccitazioni». Quando nella
prima notte d'amore con Maria, Andrea, nell'impeto della
passione, si lascia sfuggire I'invocazione a Elena, tutto
crolla: Maria inorridita fugge.
Andrea Sperelli è (è stato) il personaggio più noto e
divulgato fra i tanti creati da D'Annunzio ed è il
risultato di un'abile contaminazione fra esperienza
biografica dell'autore (periodo della "Roma bizantina") e
sollecitazioni culturali straniere. Egli rappresenta la
versione italiana dell'eroe decadente e D'Annunzio non
trascura occasione per mettere in luce la sua
aristocratica ascendenza, la sua bellezza e gagliardia
fisica, la preziosa raffinatezza del contesto in cui si
muove, il suo strenuo impegno per dare alla vita una
dimensione estetica. La singolarità dei gusti di Andrea
Sperelli, il suo distacco dalla norma, sono tutte
caratteristiche dell'eroe. decadente. europeo. ma
D'Annunzio si sofferma a precisare delineando cosi una
figura di artista non priva di implicazioni
autobiografiche - che Sperelli è anche, con snobistico
distacco quasi, un artista: «eleggeva nell'esercizio
dell'arte gli strumenti difficili, esatti, perfetti.
incorruttibili: la metrica e l'incisione. Il suo spirito
era essenzialmente formale. Più che il pensiero amava
l'espressione. I suoi saggi letterari erano esercizi,
giuochi, studi, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità».
Anche per Sperelli valeva cioè quanto il suo creatore
aveva dichiarato qualche anno prima in un sonetto dell'Isotteo:
«divina è la parola / ne la pura Bellezza il ciel ripose /
ogni nostra letizia; e il Verso è tutto» (il Binni d'altra
parte ritiene che «tutti i romanzi di D'Annunzio valgono
più che altro come documenti della sua poetica»). Nel suo
primo romanzo quindi «D'Annunzio riversò, come in una
profonda miniera, e in modo ben diverso da quel che aveva
già fatto Huysmans con A ritroso, tutto il grande fiume
del decadentismo europeo. E ancora oggi sembra quasi
incredibile la capacità di assorbimento dimostrata in
pochi anni di apprentissage da quel giovane di venticinque
anni».
Nella rappresentazione di Andrea Sperelli c'è però da
parte del narratore una certa ambiguità, una sorta di
oscillazione di prospettiva sulla quale è opportuno
soffermarsi. Partiamo da un riferimento concreto: ad un
certo punto del romanzo, di fronte ai tumulti avvenuti a
Roma il 2 febbraio 1887 in conseguenza della strage di
Dogali, Andrea Sperelli esprime il suo fastidio con la
frase «Per quattrocento bruti, morti brutalmente!»
diventata famosa per le risentite polemiche che provocò
(la citò con riprovazione, a distanza di decenni, persino
Croce nella sua Storia d'Italia del 1928). Ma alle
critiche l'autore rispose dichiarando: «quella frase è
detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D'Annunzio, e
sta bene in bocca di quella specie di mostro. Studiando
quello Sperelli io ho voluto studiare, nell'ordine morale.
un mostro». In realtà i giudizi di valore negativo sul
protagonista e sull'ambiente da lui frequentato («malignità'».
«indiscreta leggerezza». «cinica indifferenza») non sono
assenti nel Piacere, e nella lettera dedicatoria a
Francesco Paolo Michetti D'Annunzio definiva il romanzo
«questo libro nel quale io studio, non senza tristezza,
tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e
crudeltà vane»: Se è vero che queste dichiarazioni per un
verso trovano conferma in qualche valutazione come quelle
sopra citate, è però altrettanto vero che il tono
dominante, l'angolazione da cui D'Annunzio rappresenta il
personaggio e il suo ambiente sono complessivamente ben
altre. Vogliamo dire che la volontà, le intenzioni di
analisi distaccata e di giudizio il più delle volte cedono
il posto alla immedesimazione e alla complicità fra
narratore e personaggio; personaggio nel quale vengono
proiettate esperienze biografiche e gusti, atteggiamenti
intellettuali che da una Infinità di testimonianze
sappiano appartenere a D'Annunzio. A lettura finita, più
che i giudizi di valore su protagonisti e ambiente,
restano nella memoria del lettore gli indugi del narratore
nel dipanare la vicenda «fra ville storiche, sale
affrescate, concerti, preziosi oggetti di antiquariato» o
il fatto che «i tratti fisici dei personaggi, i loro
abiti, i paesaggi e gli interni vengono connotati il più
delle volte mediante il confronto con opere d'arte; [e
che] la citazione letteraria è un elemento costante dei
dialoghi». Cioè quei personaggi e quell'ambiente sono
realizzata esemplificazione di quella contaminazione tra
arte e vita, di quell'estetismo che fu una costante del
decadentismo. Né d'altra parte devono sorprendere, alla
luce dei risultati, le dichiarazioni della lettera
dedicatoria al Michetti: lo scarto fra intenzioni
dichiarate e realizzazioni, fra poetica e poesia non è poi
così raro nella storia letteraria e le oscillazioni tra
velleità di giudizio e adesione, tra distacco e complicità
non sono infrequenti (si pensi - ed è un riferimento che
ci sembra particolarmente calzante per D'Annunzio - alla
produzione di un regista come Visconti o alla conflittuale
coesistenza di condanna e attrazione verso il "peccato" in
scrittori di matrice religiosa come Fogazzaro o Tommaseo o
Mauriac).
Proprio a questa trasfigurazione (o travestimento?) della
realtà (di una realtà fra l'altro socialmente e
storicamente individuabile) è finalizzato lo stile nel
quale il ricorso al termine desueto o arcaico (renunziazione,
serenare, palvese, transparenze, ecc.) svolge la stessa
funzione che nella descrizione di un volto o di un
atteggiamento svolge il richiamo all'opera d'arte famosa:
nobilita, equipara la vita all'arte; lo stesso dicasi per
le «gittate melodiche» che ricorrono spesso in questa
prosa e per certe descrizioni paesistiche di tono pîù
lirico che descrittivo.
Per quanto riguarda le tecniche narrative merita
attenzione il fatto che nel romanzo coesistono il ricorso
al narratore esterno e quello al narratore interno. Nella
rappresentazione di Andrea Sperelli, D'Annunzio corre alla
prima di queste tecniche e ciò gli permette un certo
(relativo) distacco nei riguardi del protagonista, una
possibilità di giudizio; invece la vicenda di Maria Ferres,
i suoi turbamenti il suo innamoramento sono rappresentati
anche col ricorso (libro II) al diario intimo che essa
tiene (e quindi l'adozione della prima anziché della terza
persona). Soluzione questa - «facile e già propria dei
romanzi ameni», secondò E. De Michelis - che permette l'idoleggiamento
del personaggio, l'insistenza alquanto manierata sulla sua
squisita spiritualità, sulla sua "bontà".
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