Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

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Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Il secondo amante di Lucrezia Buti
 

Lunga prosa di Gabriele D'Annunzio già compresa nel volume, edito nel 1924, Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, dal 1929 fa volume a sé. Datata 1907, manca un preciso raffronto con Le faville del maglio, pubblicate dapprima sul "Corriere della Sera" negli anni 1911-1914: ma anche i brani eventualmente pubblicati allora come prose slegate fonde (o rifonde) in un componimento che tende a raccogliersi e costruirsi intorno a un sol tema. Il quale è l'unità indivisibile di spirito e senso nella profonda vita del poeta: colta quella unità nei lontani e primissimi presagi dell'adolescenza. Si tratta dunque di una prosa di specifica autobiografia, che si richiama ai sonetti a Prato delle Città del silenzio, alternando i ricordi delle prime esperienze sessuali ai ricordi del collegio: e culmina nella scena del postribolo, dove la prostituta, ammaestrata dalla ruffianeria di un amico, al poeta fanciullo dice di chiamarsi Lucrezia: come Lucrezia Buti, monaca smonacata e moglie di Filippo Lippi: dal fanciullo amorosamente ravvisata in tutti i volti di donna che dipinse il pittore. Non le esperienze sessuali nella loro cronaca e materialità, ma il colmo di altra vita culturale e sensibile in esse attuata, dicono ora i ricordi al poeta, e l'acre e varia inquietudine che di esse lievitò e a esse condusse: e tuttavia l'invincibile volontà, stata già nel fanciullo, di attuare sé interamente in ogni modo di vita. Gli episodi narrati ne acquistano il senso di altrettante "allegorie della conoscenza di me", come dice il libro. Come è detto esplicitamente nel libro, le Faville, di cui è composta questa prosa nascono "dopo lo sforzo severo della tragedia adriaca", La nave, ma un altro sforzo similmente e sgradevolmente severo è l'architettura della prosa stessa, il troppo che di lei nasce in funzione dell'allegorico significato. Sennonché, conseguente come vuol essere al significato, quell'architettura vuol conservare insieme l'aspetto cangevole delle altre prose raccolte nel Venturiero senza ventura: e proprio qui è la sua grazia, quel continuo trascorrere dal tempo d'oggi al tempo di altri tempi lontani, quel rimemorare, il quale "non è per me aver vissuto né rivivere: ma è vivere nel vivere": quel costruire, dice altresì il poeta, secondo il modo del contrappunto. "Parlavo, parlavo, con diverse tempere, con diversi toni, ora col mio vero, ora col mio falso, ora abbandonandomi, ora riprendendomi, ora confessando in tremito e in fremito, ora prosando in sorriso e in irrisione": è il poeta collegiale che parla a un compagno, ed è il ritmo che voleva essere di tutta la prosa. "A me sempre piacque di vivere su l'orlo del rischio e su l'orlo del segreto" dove "non vige se non quella specie di tempo che è la fluidità stessa della vita interiore": è un'altra parola del libro, tipica situazione delle Faville: eccolo pieno allora "di cose fluide e fuggitive, pieno di silenzii e d'ombre", pieno di crucci, malinconie, dispetti, voluttà, acredini, orgogli, che si susseguono gli uni agli altri, ma formano l'inseparabile unico tono delle pagine migliori del libro e la perpetua aspirazione anche delle peggiori. Per il tema dell'orgoglio si veda l'episodio del ragazzo ferito, cui fa da delicato commento l'ansia di non riconoscere più nei fatti, come altri li narra, il senso ascoso e ineffabile che la sua anima vi sperimentò: per il tema malinconico e tenero, l'avvilimento di Frontino dopo il postribolo, commento a sua volta dell'altra ansia dominatrice e conquistatrice del poeta fanciullo. Qui, e in molte pagine altrove, i toni solari e sensuali si sciolgono nel tono delle Faville: sicché vera allegoria del vero tema del libro è quel luogo citato dal Vasari, dove si dice di Filippo Lippi invasato, come il poeta, di sensualità per tutte le donne, ma "ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva". Seguono la lunga prosa nove sonetti, sonori come al solito; tra cui si distingue però il III, e soprattutto il IV, per la vaghissima grazia, quasi di madrigale settecentesco, e il leggero, impalpabile, aereo, impasto del verso.

 

Luigi De Bellis