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È il primo lavoro teatrale di D'Annunzio, un atto unico in
prosa, rappresentato da Eleonora Duse nel 1897, e
pubblicato nello stesso anno. Ancora una volta trattasi di
un'immagine di languore, di morte e di voluttà,
immedesimata in un paesaggio: nel quale vive una donna,
Isabella, impazzita per aver tenuto su di sé, tutta una
notte, il corpo dell'amante uccisole dal marito: e ancora
sente il sangue di cui s'imbevve, quando la sua dolce
pazzia non la adegua al giardino primaverile, credendo
essere anch'ella, in virtù della sua veste verde, una crea
tura di erba. Seguendo di un anno Le vergini delle rocce,
l'atto unico prosegue nel campo del teatro la medesima
reazione contro il naturalismo e lo psicologismo,
affermandosi come teatro di mera poesia contro il teatro a
intreccio tipo Sardou, o a problemi tipo Ibsen: e mira
decisamente a un vago accordo di suoni, di gesti, di
immagini, intorno all'immagine fondamentale. Non a caso il
D'Annunzio si rivolge al teatro soltanto ora che lo
stilizzare operato nelle Vergini delle rocce gli permette
di evitare gli approfondimenti psicologici, che ogni altra
forma di teatro comporterebbe: ragion per cui, di là dal
sangue e dall'orrore, la dolce Isabella di quest'atto
unico, per la primavera di cui s'adorna e con cui vorrebbe
confondersi, suona quasi preannuncio della poetica
Sirenetta, della Gioconda, e quindi dei poetici miti di
Alcione. In questi limiti, conserva ancora una suggestione
di delicata e artificiosa poesia, né vale rimproverarle
l'artifizio, che è condizione non eliminabile dell'effetto
voluto.
È stato detto che c'è nel D'Annunzio del marchese di Sade:
e la parola "sadismo" ritorna, in effetti, più volte nelle
sue pagine. Ma egli, sebbene preso da quelle immagini, le
guarda in faccia con occhio limpido e penetrante, senza il
turbamento e le traveggole del maniaco erotico. (B.
Croce). Il Sogno d'un mattino di primavera e il Sogno d'un
tramonto d'autunno volevano essere esempi di una nuova
arte simbolica che si esprimeva in gesti misurati,
calcolati, quasi magici, che parlava non con la voce di
tutte le ore, degli affari e delle passioni urgenti, ma
con la voce leggermente artefatta di uomini remoti dalla
psicologia comune, di spiriti sublimi, sdegnosi delle cure
volgari proprie degli altri mortali, di anime che si
cibano di gioie e di pene privilegiate, inedite,
inesplorate, oracoleggianti in ritrovi conclusi da pochi
eletti. (L. Russo) |