|
Terzo e ultimo dei Romanzi della
Rosa pubblicato nel
1894. La "rosa" è il tema della voluttà, il medesimo del
Piacere e dell'Innocente; che vi raggiunge i
suoi sviluppi più intensi, lasciando cadere, come l'autore
consapevolmente dichiara nella lettera dedicatoria,
l'ovvio sforzo di costruire una favola bene composta, come
già nell'Innocente. Ancor più che nel Piacere, quello
stato d'animo fascinoso e cupo è in prima persona alla
ribalta. Il protagonista del nuovo romanzo, Giorgio Aurispa, è un'altra incarnazione dell'Andrea Sperelli del Piacere, anch'egli cinico, sensuale, egoista,
moralmente inerte e disperatamente lucido nella propria
insufficienza morale, avvinto da una passione sessuale per
una donna, Ippolita, che gli brucia ogni forza
dell'intelletto e della volontà. La sua disperazione
carnale gli si raffigura dapprima come gelosia, così di
altri uomini che possano desiderare la donna, come dei più
fuggevoli pensieri che gliela tengano, accanto sì, ma
estranea; e fin dalle prime pagine del libro una
suggestione di suicidio e di morte balena in fondo a
quella disperazione come unico scampo. Invano tenterà
Giorgio di occupare la propria anima di altri affetti;
nella stessa casa paterna si ritrova repulsivo a tutto,
fuorché all'invito mortale che gli viene dal ritrovato
ricordo di uno zio suicida. E la vita in comune con la
donna amata, se calma la sua disperazione come gelosia,
gliel'acuisce come tormento: per sottrarsi a questo stato
non resta a lui che liberarsi della donna. Ma invano
chiede Giorgio la liberazione in un tentativo di
misticismo religioso e razziale, mescolandosi alla folla
idolatra di Casalbordino, invano la chiede alla musica:
anche da lì non riceve se non fisico disgusto, o
spirituale commozione, ma, in una forma o nell'altra
invito alla morte. Talché infine manda a effetto il
proposito omicida e suicida, precipitandosi avvinto alla
donna in un abisso. Conseguentemente costruito con
continui passaggi dagli stati d'animo lieti agli stati
d'animo amari, questo romanzo resta anche il massimo
sforzo del D'Annunzio di "costruirsi" psicologicamente; e
il tono più solito del libro, dove il senso della morte
non cede mai al senso della voluttà, né viceversa, è pari
all'intento specie nelle pagine della casa paterna,
nell'episodio di Casalbordino, che si richiama, con qual
che influsso zoliano, alle pagine più feroci del San
Pantaleone, e dovunque ritorna il tema dell'angoscia
mortale. Per una più completa e vera liberazione nell'arte
manca tuttavia ancora una volta il senso di un effettivo
(e morale) distacco del poeta dagli stati d'animo
rappresentati, che restano meno rappresentati che detti;
torbidamente ci si aggira di continuo in essi, ma senza
considerarli mai da un punto di vista più alto. Perciò la
linea del romanzo è più conseguente nel riassunto che nel
testo; dove gli episodi si susseguono agli episodi,
irresistibilmente descritti, ciascuno svolto per sé a
tutto tondo, perdendo ogni volta il contatto con quanto
segue e precede; e la scrittura, rotonda, fastosa, piena
di cadenze distese, concorre per conto suo a spegnere in
un ritmo livellatore il risentimento doloroso degli stati
d'animo descritti. Tuttavia, di là da episodiche bellezze
e pesantezze, il libro lascia un'impressione forte, e quel
suono sordo e cupo non si dimentica. Curioso è che proprio
in questo libro, dove si tratta di un nevrastenico e di un
vinto, s'incontra per la prima volta, fin dalla lettera
dedicatoria, la celebrazione del Superuomo annunziato dal
Nietzsche; celebrazione bensì in modo tutto dannunziano,
cioè privo di risonanze etiche, ma soltanto di egoistica e
prepotente affermazione di sé.
Egli è gettato nell'oceano delle sensazioni, e, quando non
vi nuota placidamente, quando si dibatte per uscirne e
crede di afferrare una terra ferma o un'isola, afferra
solamente un'onda più alla che lo sbalestra in là.
L'elevazione morale sarà in lui un'oscura nostalgia,
l'aspettazione di una dolcezza diversa dalle dolcezze già
provate; ma egli non riesce mai a possederla, e nemmeno a
intravederla o a presentirla. (B. Croce).
Con tutte le sue debolezze, l'opera di D'Annunzio
appartiene alla storia dell'arte, e per conseguenza alla
storia seria dello spirito, non all'aneddotica delle
parodie che lo spirito tentò di se medesimo. (G.A.
Borgese) |