|
È il tomo primo delle Faville del maglio di D'Annunzio:
uscì nel 1924. La sua seconda e più folta parte è una
lunga prosa dal titolo Il secondo amante di Lucrezia Buti,
che dal 1929 in poi farà volume a sé; mentre la prima
parte, composta di una prefazione e di 15 prose anche in
seguito continuerà a far volume col titolo antico. Le 15
prose (di cui una seguìta da quattro sonetti) son
variamente datate, dal 1896 al 1907; ma le poche che
furono effettivamente pubblicate prima di quelle del
"Corriere della Sera" (il rifacimento blasfemo di tre
Parabole evangeliche, nel 1897-1898, e i quattro sonetti
nel 1906) appartengono a un'ispirazione e a un tono
diversissimi: le tre Parabole ripetendo in prosa il vacuo
esercizio di stile tentato già nell'Isottéo con le
quartine di Eleabani, e i sonetti riallacciandosi al
D'Annunzio superumano, "ore rotundo". Ma qualunque sia
l'epoca a cui appartengono le altre prose (quella che
indicano le date apposte, o quella dell'effettiva
pubblicazione, o più verosimilmente siano lo sviluppo dato
in quest'ultima epoca ad appunti più antichi), con più o
meno felicità appartengono tutte al nuovo D'Annunzio, che
veniva nascendo lentamente dopo aver già portato
all'assurdo, nel Più che l'amore e nella Nave, il tema
superumano e il tono alto che l'accompagna. Giusto nella
prosa "Dell'attenzione", contenuta nel volume, il poeta
dice il senso di "inopinata novità" che hanno per lui
stesso gli "improvvisi motivi", le "inattese associazioni
di apparenze e di essenze", che passano in lui quando un
grande sforzo creativo appena compiuto "lascia sazio e
pago in me l'artiere", una specie di "strano trasognamento"
in cui la realtà "si dissolve, si difforma, si trasforma,
assume l'aspetto del mio più segreto fantasma". Nascono
infatti tutte queste prose, anche quando non lo denunziano
esplicitamente, nelle pause intromesse fra le opere
maggiori, anzi esse sole considerate "opere" dal
D'Annunzio, e queste come faville sfuggite al lavoro del
maglio, e quel senso di pausa, dove si allenta uno sforzo
altrove tesissimo, è condizione poeticissima, come già
accadde in Alcione, al lieve e quasi magico brillare della
fantasia, fuori dagli sforzi variamente significanti e
costruttivi su cui si appuntò il travaglio dell'artiere.
Quel reciproco e fluido illuminarsi di motivi appena
accennati, vibrare dei silenzi, allentarsi di ogni cura
che non sia di godere sé nel flusso delle sensazioni
sfuggenti, e la malinconia che è un modo di più raccolto
godere: tali sono i motivi di poesia delle Faville, tutto
ciò insomma che fece (o farà) il pregio dell'ultimo
tentativo dannunziano di costruzione narrativa, il Forse
che sì forse che no di là dalla costruzione e dal
racconto. Non che sparisca, dell'antico D'Annunzio, il suo
perpetuo idoleggiarsi a Superuomo-artista: come si vede
nella dicitura "Studi del vivere inimitabile", e si vede
specialmente nel primo che dà il titolo al libro: dove,
contemplando dall'alto di una collina, a cavallo, il
panorama di Firenze, il D'Annunzio capisce in sé il
fremito di cupidigia, "una sorta di lussuria ossidionale",
dei venturieri medievali all'assalto della città. Il tema
potrebbe ricordare il "Canto amebèo della guerra" nella
Laus vitae; ma, come là più che l'orgoglio del vittorioso,
lo conduceva una cupa voluttà di sterminio e di morte, qui
l'orgoglio resta un motivo fra gli altri, alleggerito già
perciò e ombrato di malinconia dal "senza" del titolo; in
suo luogo altri pensieri meno definiti, immagini meno
compiute, però poeticamente compiuti in quella vaghezza,
trascolorano la pagina: odore di pioggia, voli di
pipistrelli o di rondini, lo schiumare del cavallo, certo
rapido tornare in mente al poeta e inebriarlo senza perché
"parole che sembrerebbero varie o remote a un estraneo e
che dentro me, risuonano con non so quali rispondenze
profonde". Il pericolo maggiore è quando la levità dei
motivi crede trovare un sentimento adatto a reggerli in un
misticismo che potenzi e incanali il languore che ci sta
sotto: e s'imparenta ai vecchi temi cristianeggianti e
paradisiaci. Se qui non c'è l'aperta bestemmia, non c'è
nemmeno l'aperta decoratività del Martirio di San
Sebastiano, nemmeno il senso del semplice esercizio
metrico come nelle Parabole: c'è una bestemmia, vorrei
dire, aggravata da quella molliccia esitanza a esser
bestemmia, da quello zelo ambiguo, come nei luoghi
peggiori della Contemplazione della morte. |