Letteratura italiana: Opere di D'Annunzio

   Home        

 

Parliamo di

  Le opere di Gabriele D'Annunzio
Autore critica
Eurialo
De Michelis

 


Il venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile
 

È il tomo primo delle Faville del maglio di D'Annunzio: uscì nel 1924. La sua seconda e più folta parte è una lunga prosa dal titolo Il secondo amante di Lucrezia Buti, che dal 1929 in poi farà volume a sé; mentre la prima parte, composta di una prefazione e di 15 prose anche in seguito continuerà a far volume col titolo antico. Le 15 prose (di cui una seguìta da quattro sonetti) son variamente datate, dal 1896 al 1907; ma le poche che furono effettivamente pubblicate prima di quelle del "Corriere della Sera" (il rifacimento blasfemo di tre Parabole evangeliche, nel 1897-1898, e i quattro sonetti nel 1906) appartengono a un'ispirazione e a un tono diversissimi: le tre Parabole ripetendo in prosa il vacuo esercizio di stile tentato già nell'Isottéo con le quartine di Eleabani, e i sonetti riallacciandosi al D'Annunzio superumano, "ore rotundo". Ma qualunque sia l'epoca a cui appartengono le altre prose (quella che indicano le date apposte, o quella dell'effettiva pubblicazione, o più verosimilmente siano lo sviluppo dato in quest'ultima epoca ad appunti più antichi), con più o meno felicità appartengono tutte al nuovo D'Annunzio, che veniva nascendo lentamente dopo aver già portato all'assurdo, nel Più che l'amore e nella Nave, il tema superumano e il tono alto che l'accompagna. Giusto nella prosa "Dell'attenzione", contenuta nel volume, il poeta dice il senso di "inopinata novità" che hanno per lui stesso gli "improvvisi motivi", le "inattese associazioni di apparenze e di essenze", che passano in lui quando un grande sforzo creativo appena compiuto "lascia sazio e pago in me l'artiere", una specie di "strano trasognamento" in cui la realtà "si dissolve, si difforma, si trasforma, assume l'aspetto del mio più segreto fantasma". Nascono infatti tutte queste prose, anche quando non lo denunziano esplicitamente, nelle pause intromesse fra le opere maggiori, anzi esse sole considerate "opere" dal D'Annunzio, e queste come faville sfuggite al lavoro del maglio, e quel senso di pausa, dove si allenta uno sforzo altrove tesissimo, è condizione poeticissima, come già accadde in Alcione, al lieve e quasi magico brillare della fantasia, fuori dagli sforzi variamente significanti e costruttivi su cui si appuntò il travaglio dell'artiere. Quel reciproco e fluido illuminarsi di motivi appena accennati, vibrare dei silenzi, allentarsi di ogni cura che non sia di godere sé nel flusso delle sensazioni sfuggenti, e la malinconia che è un modo di più raccolto godere: tali sono i motivi di poesia delle Faville, tutto ciò insomma che fece (o farà) il pregio dell'ultimo tentativo dannunziano di costruzione narrativa, il Forse che sì forse che no di là dalla costruzione e dal racconto. Non che sparisca, dell'antico D'Annunzio, il suo perpetuo idoleggiarsi a Superuomo-artista: come si vede nella dicitura "Studi del vivere inimitabile", e si vede specialmente nel primo che dà il titolo al libro: dove, contemplando dall'alto di una collina, a cavallo, il panorama di Firenze, il D'Annunzio capisce in sé il fremito di cupidigia, "una sorta di lussuria ossidionale", dei venturieri medievali all'assalto della città. Il tema potrebbe ricordare il "Canto amebèo della guerra" nella Laus vitae; ma, come là più che l'orgoglio del vittorioso, lo conduceva una cupa voluttà di sterminio e di morte, qui l'orgoglio resta un motivo fra gli altri, alleggerito già perciò e ombrato di malinconia dal "senza" del titolo; in suo luogo altri pensieri meno definiti, immagini meno compiute, però poeticamente compiuti in quella vaghezza, trascolorano la pagina: odore di pioggia, voli di pipistrelli o di rondini, lo schiumare del cavallo, certo rapido tornare in mente al poeta e inebriarlo senza perché "parole che sembrerebbero varie o remote a un estraneo e che dentro me, risuonano con non so quali rispondenze profonde". Il pericolo maggiore è quando la levità dei motivi crede trovare un sentimento adatto a reggerli in un misticismo che potenzi e incanali il languore che ci sta sotto: e s'imparenta ai vecchi temi cristianeggianti e paradisiaci. Se qui non c'è l'aperta bestemmia, non c'è nemmeno l'aperta decoratività del Martirio di San Sebastiano, nemmeno il senso del semplice esercizio metrico come nelle Parabole: c'è una bestemmia, vorrei dire, aggravata da quella molliccia esitanza a esser bestemmia, da quello zelo ambiguo, come nei luoghi peggiori della Contemplazione della morte.

 

Luigi De Bellis