Letteratura italiana: Opere di Montale

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Parliamo di

  Letteratura italiana del Novecento
Autore della critica
Adriano Bon

 


La bufera e altro
 

Raccolta poetica pubblicata nel 1956. La ristampa del 1961 è accresciuta dal "madrigale" "Se t'hanno assomigliato". Vera e propria pre-edizione è da considerarsi il fascicolo "Finisterre" - attuale prima sezione del libro - che nel 1943 fu introdotto clandestinamente in Svizzera da G. Contini e ivi stampato da P. Bernasconi. Che a questa prima sezione del "terzo libro" di Montale fosse preclusa in quegli anni la pubblicazione in Italia (la si avrà nel 1945, a guerra finita), lascia intendere come questi versi accolgano in sé gli atroci avvenimenti d'allora, sino a cristallizzarli in pochi temi esclusivi, sottoponendoli a un inflessibile giudizio morale. Una guerra cosmica serra il mondo in un cerchio di morte, determinandosi anch'essa, per il poeta, come autentica "condizione" che esaspera i temi stessi della poesia; di qui la definizione che M. diede di questi suoi versi, coevi agli ultimi delle Occasioni: esperienza petrarchesca dove, sullo sfondo della guerra, il poeta si affida alla figura salvifica della donna. "Si tratta di poche poesie, nate nell'incubo degli anni '40-'42, forse le più libere che io abbia mai scritte, e pensavo che il loro rapporto col motivo centrale delle Occasioni fosse evidente". Da qui nascono alcune costanti figurali che, dall'epigrafe del D'Aubigné alla lirica che inaugura il gruppo, "La bufera", anche qui investita del valore di proemio secondo l'abitudine di Montale, sono subita esca di quella che sarà la realtà scatenata della "suite": strage e morte. E di contro, in questa prima sezione e poi in tutto il libro, uno stile in cui il lessico, qui come non mai in Montale segnato da felici stilemi danteschi, si fa fulcro dell'intero componimento, in genere ambientato in una sorta di serotino limbo purgatoriale dove l'aria è percorsa da un baluginìo d'immagini ricorrenti che si strutturano, alfine, in emblemi di un privato universo. Già nella prima poesia della serie, una bufera reale e simbolica "sgronda sulle foglie / dure della magnolia" (simbolo, qui e altrove, di civile concordia), bufera cosmica dinanzi alla quale ispiratrice dovrà ritirarsi, cedendo al male con misurato gesto leopardiano. In tale mondo stravolto ("Nulla vieta di vedere in tutto questo il profilo perenne dell'inferno terrestre") la funzione salvifica dell'amata risulta compromessa. Anzi, nel cupo incubo di "Serenata indiana", il polipo, simbolo del maligno ramificare bellico, giunge a sottrarre alla donna identità e coscienza: "Tu gli appartieni / e non lo sai. Sei lui, ti credi te". A questo mondo febbrile di schianti e gemiti, tuttavia, Montale inizia a opporre un'attesa solitaria sostenuta da una fitta rete di riferimenti: così negli "Orecchini" s'intrecciano le immagini positive dell'occhio / Specchio e dei voli, pur se anche qui l'ostacolo della guerra impedisce l'epifania: "Ronzano èlitre fuori, ronza il folle / mortorio e sa che due volte non contano". La ricomparsa dell'amata si avrà ne "La frangia di capelli", dove gli elementi positivi si risolvono, in un crescendo metaforico, nell'immagine vittoriosa della donna quale "trasmigratrice Artemide ed illesa / tra le guerre dei nati-morti", dove già risulta fondamentale il motivo del volo, misterioso in "Iride" o lutulento nell'"Anguilla". Vittoria formale in una "suite" che ha forse l'unico "talismano non caduco" nel "Giglio rosso", e che vede infine il poeta ripiegare, dopo l'enigmatica cifra del "Ventaglio" e il volo eroico di "Giorno e notte", sulla memoria privata ("L'arca", "A mia madre") generatrice di un fragile elisio che si costituisce come emblematico argine alla morte. In parallelo, dunque, amuleti che, se rivelati, si perdono ("Gli orecchini", "Il ventaglio", "Personae separatae") e cotesta "enorme / presenza dei morti", "eliso / folto d'anime e di voci" che "anima il mito che costituisce la più visibile novità della Bufera" (Contini), "realtà fissata di là dal tempo sulla pur complessa base del solo umano ricordo, e perciò fragile, condizionata, e quindi raggiungibile e scompigliabile da parte dell'occasionale tempesta ch'è all'origine della poesia" (Forti). Già la seconda sezione, "Ballata scritta in una clinica" segna il passaggio da una disarmonia contingente (fascista prima, bellica poi) a un più metafisico disagio: la condizione umana (riassunta nella figura della moglie malata) passa dal buio della barbarie al buio dell'assenza, in una crisi astorica "così che s'installa un'altra ambiguità linguistica, la bufera si fa bifronte, verso i due piani: l'emergenza, e il "cupo / singulto di valli e dirupi / dell'altra Emergenza"" (Contini). Crisi dell'esistere suggellata nelle due prose di "Intermezzo" soprattutto nel ricordo della "decenza quotidiana (la più difficile delle virtù)" del poeta Fadin. Ripresi, approfonditi, organizzati in simboli e in sintetiche strutture di pensiero motivi già trattati nelle Occasioni, M. tende a riassumere il proprio travagliato repertorio vitale in una serie di brevi poesie - flash e dediche - poste, con procedimento già sperimentato nelle due precedenti raccolte, a cerniera nel cuore del libro. Poesie ispirate da altra donna che quella "trasmigratrice Artemide", questi brevi "lampi" si presentano col programma dichiaratamente minore di ricerca stupefatta e quasi straniata di simboli sempre più ridotti a correlativi privati. Né è da dimenticare la vicinanza di queste poesie alle brevi prose di viaggio che il giornalista Montale veniva componendo in quegli anni; dove spesso, anzi, si potrà indicare un riscontro puntuale tra i versi e l'occasione poetica, questa rimasta pur sempre negli "immediati dintorni" della poesia, quelli a formare un universo in sé istituito e raggiunto nelle e grazie alle proprie figure emblematiche. Così in queste quindici poesie dedicate, come i successivi "madrigali privati", alla donna celata sotto il "senhal" della Volpe, Montale comprime sino a generar scintille tutti i propri motivi: sul grande tema della salvezza / perdizione giocata sull'attesa / assenza, ecco innestarsi il topos del volo, che qui già inizia a farsi ipotiposi discensiva (dal "piccione incapace di seguirti / sui gradini automatici che ti slittano in giù" alla "tomba / che non vola" sino al famoso "Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice: / scura, l'ali ingrommate, stronche dai / geli dell'Antilibano"), gradini d'una "via in giù" che sfocerà in un impasto creaturale culinario-scatologico. Ecco, nell'elencazione ellittica di "Verso Siena" o "Sulla Greve", rifulgere improvviso l'occhio salvatore, ecco, nella struttura anaforica di "Luce d'inverno", l'artiglio, l'unghiata, la sega dei denti, spasmi poetici che fruttificheranno nella quinta sezione del libro. Così, il favoloso esotismo di superficie si risolve in felice zona onomastica, "vera e propria metafora della stessa vita" (Forti). Assolta la loro funzione di cerniera figurale, i "Lampi" lascian luogo alle "Silvae", momento lirico-escatologico della raccolta. Sono tra le maggiori poesie che M. ci abbia dato, e segnano il deciso superamento dell'occasione esterna (la bufera bellica) a favore d'un'interna riflessione in un'autonomia di sentimenti e rappresentazioni, che forse deluse chi s'attendeva dal poeta una più contingente compromissione con la realtà. Sùbito in "Iride", la religiosità di M. - già tutta nel "fuggo / l'iddia che non s'incarna" degli "Orecchini" - si risolve nella felice immagine del "povero / Nestoriano smarrito", più compreso della natura umana che di quella divina del Cristo, e che sarà salvato, se sarà salvato, dal riconoscere Clizia-Iride, mediatrice con la divinità. Così nell'"Orto" la chiama "messaggera / che scendi, prediletta / del mio Dio", in una poesia dove le quattro strofe - giocate dapprima sull'anafora "io non so", concluse poi sull'epifonema gnomico della "forza / che guida il disco di già inciso" - evidenziano "l'intrico, l'ipoteticità... una sintesi ormai purgatoriale, i cui acquisti giungono dal drenaggio più lento e misterioso della memoria, che di questo libro e, in particolare, di questa sezione, è funzione principalissima" (Forti). E la memoria presiede l'adunata dei morti di "Proda di Versiglia", che nell'attacco altissimo riassume in sé le precedenti "Arca" e "A mia madre", preludendo alla definitoria "Voce giunta con le folaghe"; qui la memoria è paradigma d'una fede ridotta alla pur transeunte conservazione delle cose, in una dimensione intangibile ad di là del presente, religiosità laica che sola permette l'illusione d'un colloquio archetipico tra vivi e morti. Così, ne "La primavera hitleriana" l'occasione storica della visita di Hitler a Firenze, e l'indignazione del poeta, cedono, dalla terza strofa, a una diversa soluzione - virando sul "maladjustment" - dove l'energia lirica si dispiega nel segno dell'azione dell'amata "Oh la piagata / primavera è pur festa ..." Ma è un dispiegarsi che già nella chiusa dell'"Ombra della magnolia" si fa arenamento del poeta, "saltato in secco al novilunio", incapace di raggiungere le altezze di Clizia. E nel "Gallo cedrone" l'identificazione sarà totale ("tu... io... noi") in un magma di scorie e fango da cui s'affacciano le prime metafore culinarie. Sarà la struttura verticale dell'"Anguilla", unico periodo di quattro riprese, a chiudere la sezione in un crescendo di immagini che bruciano ogni segno ostile sino al trionfo dell'abbagliante analogia finale. Qui è la conclusione della Bufera: nel volo lutulento, sì, ma fecondo della "freccia d'amore", "anima verde", è da vedersi la riconquista d'una dimensione superiore allo schermo memoriale. Se i "madrigali privati" segnano una pausa, quasi premonitori del "quarto libro", saranno le "Conclusioni provvisorie" a riprendere la concettuale tensione delle "Silvae", permettendo a M. "un passo ulteriore nella sistemazione di una visione del mondo maturata nella fedeltà a un ormai lungo esercizio" (Forti). Anche qui il sortilegio del recupero memoriale di contro a un mondo sempre più preda del leopardiano "brutto poter". Talché, più che a guerra fredda e purghe staliniane, le due poesie accennano, nella loro cupa musicalità atonale, alla "condizione del poeta nell'attuale e nella prossima storia" (Solmi). Nella livida alba di un inferno coquinario, anche per il "povero / Nestoriano smarrito" "comincia l'ordine - se tale possa mai chiamarsi - dell'Inumano, impensabile e incommensurabile col nostro" (Solmi). Il gelo razionale di una impotente sentenza negativa percorre i gesti straniati del poeta, si condensa, si fa duro nucleo dal quale s'irradia la vertigine che chiude poesia e libro: "e i colpi si ripetono ed i passi, / e ancora ignoro se sarò al festino / farcitore o farcito. L'attesa è lunga, / il mio sogno di te non è finito".

 

Luigi De Bellis