Parliamo di |
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Letteratura italiana del Novecento |
Autore
della critica |
Adriano
Bon |
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Diario
del '71 e del '72 |
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Raccolta poetica
pubblicata nel 1973; pre-edizione parziale è il Diario del
'71, silloge non venale edita dallo stesso poeta per il
Natale di quell'anno. Tutte le poesie, tranne due del
dicembre 1970, appartengono al biennio che precisa
temporalmente il titolo: Diario, parola non pregnante che
offre una precisa proposta di lettura. Montale stesso,
sottolineando l'evidente schema diaristico - per cui le
singole poesie e tutta la raccolta "si capiscono meglio
conoscendo i precedenti" libri -, aggiungeva: "Sono poesie
scritte giorno per giorno, appunti per poesie che poi non
ho pensato di scrivere, perché gli appunti bastavano.
L'unità è data dal loro assieme". Se, come per il
precedente Satura, questo Diario è caratterizzato da un
principio d'integrazione proposto esternamente dal titolo,
una così "semplice" indicazione di lettura sarà in stretto
rapporto con il forte "understatement" dell'ultimo Montale
e, ancor più, con quella sprezzatura che "intride la
poesia-poesia con la prosa" (Contini), con accenti e toni
già adottati in Satura. Se la continuità formale è data
proprio da una versificazione che "tende alla prosa e
nello stesso tempo la rifiuta" (Forti), il "climax"
intellettuale di Satura si ritrova nel desiderio di
offrire, in questa affabulazione diaristica, la traccia
della propria storia privata e quotidiana contrapposta
alla sempre più informe Storia. Diffidente, sin dagli anni
di Farfalla di Dinard e delle "Conclusioni
provvisorie", nei confronti delle filosofie positive,
critico impietoso "dell'incenerimento/universale", il
poeta appiattisce la prospettiva storica in un'atemporalità
esistenziale in cui netta dicotomia si ha tra l'Io e "la
ribollente zavorra", "la fumosa colata che se ne va/per
conto suo e ignora la nostra esistenza". Ritornano così
immagini già note, tese a ridurre le vicende storiche a
tensioni ai limiti deil'astoricità: "Ma dopo che le stalle
sì vuotarono/l'onore e l'indecenza stretti in un solo
patto/fondarono l'ossimoro permanente", versi
incomprensibili senza il riferimento alle "Stalle di Augìa"
di "Botta e risposta I"; l'immagine della "rete/che
strascica sul fondo" richiama la "rete a strascico" di "La
storia"; ritornano infine gli oggetti un tempo emblematici
della poesia di Montale,
ridotti, nella "decozione" del mondo (si pensi alla poesia
sull'alluvione di Firenze), a un insieme di "carabattole".
Ed è proprio questo rigoroso senso di estraneità (maturato
in Montale
ancor più acerbamente dopo le illusioni del dopoguerra)
che cementa poesie amare e ricche di epifonemi che nascono
dall'autocoscienza d'esser sopravvissuto in "un tutto che
si sgretola e qualcosa/che si sfaccetta", giustificandola
come unico dato conoscibile (o almeno riconoscibile) sul
quale fondare il discorso poetico, ultima salvezza, seppur
minima, a patto di non "scambiare l'essenziale col
transitorio". La solitudine esistenziale è tutto quanto
resta, nel fluire indefinibile della nuova realtà tecnica
("il robottone/della fluente e ghiotta infinità"), fluire
che coinvolge, in apertura di libro, la poesia stessa:
"Quando l'indiavolata gioca a nascondino/difficile
acciuffarla per il toupet". Ma "il linguaggio,/sia il
nulla o non lo sia,/ha le sue astuzie": unica possibile,
ormai, per le "maldestre/dita", è quell'"arte povera" che
in una delle poesie emblematiche della raccolta, si fa
simbolo e della nuova tecnica timbrica e dell'apparente
riduzione di "climax poetico"; dichiarazione di tendenza
che balenerà nella metafora della "Mia Musa", réfolo,
"flatus vocis" che "indossa i panni dello
spaventacchio/alzato a malapensa su una scacchiera di
viti". L'universo è muto per il continuo vocìo, "Troppo
spessore è intorno/di su, di giù nell'aria./Non si
procede: muoversi/è uno strappo" (così come in Satura "si
slitta") e ormai, "Solo le cripte, le buche/i ricettacoli,
solo/questo oggi vale" in un mondo ridotto a "decozione/di
tutto in tutti". Mentre formicolano sempre più i
deuteragonisti ("quella che legge i giornali", Malvolio e
la sua "banda"), mentre le figure amiche restano solo
nella memoria (che in "Lettera a Bobi" si farà estrema
voce dell'agonia della vecchia Europa), il silenzio è
sempre più alveo di significato contrapposto alla parola,
vuoto assurdo. Tanto più feroce la mimesi
linguistico-gergale a fronte di una riduzione vitale tanto
più necessaria "tra di noi, i sedicenti/vivi", che
raggiunge una nuova intensità in "A questo punto" dove,
ribaltando la sollecitazione delle precedenti raccolte,
"l'ombra" dell'ispiratrice invita il poeta, nel quale ha
insufflato virtù e vizi a lui estranei, a staccarsi da lei
perché: "A questo punto/guarda con i tuoi occhi e anche
senz'occhi". E mentre i riferimenti ai propri antichi
testi si fanno sempre più fitti il tono distaccato, in cui
si rifugia spesso Montale,
rende più misteriosa, più assoluta, nell'assenza di
retorica, la presenza dell'Altro, già dominante in Satura.
Quell'Altro che per manifestarsi non necessita più di
messaggere dall'oltrecielo perché, certa la coincidenza
delle polarità, "Il suo segno è a misura di millimetro0";
è questa la vera assenza-presenza di quasi ogni poesia,
l'unica paradossale certezza mentre "Non si è mai saputo
se la vita/sia ciò che si vive o ciò che si muore", e
"quello che ci resta sotto le unghie/anche se usciamo
appena dalla manicure,/quello è ancora la prova che siamo
polvere/e torneremo polvere e tutto questo/è polvere di
vita, il meglio e il tutto". |
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