Parliamo di |
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Letteratura italiana del Novecento |
Autore
della critica |
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I
limoni |
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«All'eloquenza della
nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo,
magari a rischio di una controeloquenza». Così dichiara
Montale a proposito dei suoi esordi poetici in una celebre
intervista, Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946). Ma
già I limoni, posti quasi ad apertura degli Ossi di
seppia, costituiscono, nella forma discorsivo-narrativa
tipica della raccolta, la dichiarazione di una poetica
antieloquente. La lirica introduce anche all'essenziale
paesaggio ligure, tipico del primo Montale.
Intenzioni. Per comprendere questo testo e in genere la
prima lirica montaliana è opportuno riferire per esteso il
passo dell'intervista citata nella premessa. «[Scrivendo
il mio primo libro] volevo che la mia parola fosse più
aderente di quella di altri poeti che avevo conosciuto.
Più aderente a che? Mi pareva di vivere sotto a una
campana di vetro, eppure sentivo di essere vicino a
qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena mi
separava dal quid definitivo. L'espressione assoluta
sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una
esplosione, la fine dell'inganno del mondo come
rappresentazione [cioè, nei termini della filosofia di
Schopenhauer, un mondo inautentico perché rappresentato
dalla convenzionalità della parola]. Ma questo era un
limite irraggiungibile. E la mia volontà di aderenza
restava musicale, istintiva, non programmatica.
All'eloquenza della nostra vecchia lingua volevo torcere
il collo, magari a rischio di una controeloquenza». II
problema qui posto da Montale ha due aspetti (tra loro
connessi): uno poetico, letterario, e l'altro
esistenziale.
Torcere il collo all'eloquenza, facendo cozzare l'aulico
col prosaico. Un immediato referente polemico è
D'Annunzio, come ultimo rappresentante di una poesia
eloquente, incapace di aderire al reale, ma solo di
rappresentarlo in modo convenzionale e quindi falso.
Montale invece aspira a una parola poetica che colga la
realtà, l'essenza delle cose. Questo è anche il senso
dell'opposizione della propria poesia a quella dei «poeti
laureati», dei limoni ai «bossi ligustri o acanti». Ma
D'Annunzio doveva anche essere «attraversato», come ebbe a
dichiarare Montale stesso a proposito di Gozzano, il quale
a suo giudizio «fu il primo dei poeti del Novecento che
riuscisse (com'era necessario e come probabilmente lo fu
anche dopo di lui) ad attraversare D'Annunzio per
approdare a un territorio suo, così come, su scala
maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hugo per gettare
le basi di una nuova poesia». Si evidenzia così anche la
parentela, pur indiretta, dell'ideale di una poesia
antieloquente di Montale con quello del crepuscolarismo e
in particolare con quello del crepuscolarismo di Gozzano,
«il primo che abbia fatto scintille facendo cozzare
l'aulico col prosaico» (parole ancora di Montale, ma sì
veda Mengaldo. E proprio il Mengaldo ha mostrato come
Montale, linguisticamente e stilisticamente, attraversi
l'esperienza poetica di D'Annunzio utilizzandone lessico,
stilemi, cadenze e facendoli «cozzare» - secondo la
lezione gozzaniana - con un linguaggio più dimesso,
quotidiano, discorsivo. È quanto accade anche in questa
lirica, ad esempio proprio nella contrapposizione tra gli
umili «limoni» e le piante dai nomi poco usati, «bossi
ligustri o acanti», ma anche accostando termini ricercati
come «riescono», «susurro», «divertite», il dannunziano «
s'affolta», ecc. a «pozzanghere», «anguilla», «ciglioni»
ecc.
Lo sbaglio di natura, l'anello che non tiene. Il passo
dell'intervista Intenzioni, con l'immagine della «campana
di vetro», è anche illuminante riguardo agli aspetti più
immediatamente esistenziali del testo. Altrove, in
un'altra intervista, e ad altro proposito, Montale
dichiara: «avendo sentito fin dalla nascita una totale
disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia
della mia ispirazione non poteva essere che quella
disarmonia». La condizione umana è percepita subito da
Montale come una condizione di infelicità, di disarmonia,
di inautenticità, di «male di vivere», di «vita
strozzata», di separazione (come appunto di chi è in una
campana di vetro) dalla vera vita che sfugge, dalla vera
realtà che non rivela la sua intima essenza ma solo
inessenziali parvenze. A questa condizione si oppone il
desiderio di una vita felice, pienamente vissuta e
realizzata, armonicamente fusa con la natura e con tutto
il reale. Ecco allora la genesi delle immagini che
simboleggiano la vita non realizzata (il muro con in cima
i cocci aguzzi di bottiglia di Meriggiare pallido e
assorto, l'azzurro percepibile in città solo «a pezzi, in
alto, tra le cimase», qui). Ed ecco allora anche le
immagini che simboleggiano l'ipotesi di una realizzazione
esistenziale, la fuga dal ferreo determinismo che regola
la vita umana: la «maglia rotta nella rete», attraverso
cui guizzare liberi nel mare, «balzar fuori, fuggire»
verso la felicità, la vita (In limine) e qui il profumo
dei limoni, che consente forse a qualcuno (non però al
poeta) di tramutarsi in «disturbata Divinità» e al poeta,
nel chiuso della città, per un momento di attingere a una
più cordiale visione del mondo.
Questo testo propone sintetizzata la duplice dialettica
che caratterizzerà poi tutta la raccolta:
1) fra momenti in cui ci si
sente vicini a cogliere il senso ultimo delle cose e a
proiettarsi nella vita e momenti in cui si sprofonda nel
tedio;
2) fra il poeta, incapace di
infrangere la campana di vetro che lo separa dalla realtà
e dalla vita vera, ma sempre in attesa che il miracolo
accada, e le persone che ci riescono, e sì tramutano quasi
in divinità. |
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