Parliamo di |
|
Letteratura italiana del Novecento |
Autore
della critica |
Adriano
Bon |
|
|
|
|
Satura |
|
|
Raccolta del poeta,
da non confondersi con l'omonima strenna fuori commercio
curata dal poeta dieci anni prima. Pre-edizione del 1966 è
la silloge Xenia, accolta poi nella prima sezione omonima
del volume, dedicata alla memoria della moglie Drusilla
Tanzi, chiamata affettuosamente Mosca. Il quarto libro
poetico montaliano è diviso infatti in due sezioni: "Xenia
I e II", ventotto poesie degli anni 1964-1967, e "Satura I
e II", settantasette poesie degli anni 1968-1970. Già il
titolo complessivo, Satura, suggerisce una lettura
sincronica contrapposta alla diacronia delle raccolte
precedenti; vi è qui la subordinazione delle singole
poesie a un principio integrativo ambiguamente giocato sui
possibili significati di "satira", "forma mista" e
"saturazione" compresi nel titolo stesso. Polivalenza
armonica e strutturale, la cui spia sarà la reiterata
figura dell'ossimoro, dichiarata ne "Il tu", dove Montale
sottolinea l'inappartenenza della poesia a se stessa,
ribadendo l'unicità di funzione dell'interlocutore (""il
mio" tu"), pur nello sfaccettarsi contraddittorio "dei
troppi suoi duplicati". Altri temi concentra in sé "Botta
e risposta I", scritta con forte anticipo d'anni rispetto
alle altre poesie, quasi cerniera tra queste e le
precedenti raccolte; nulla che contrasti con le basilari
concezioni di Montale
(lo conferma il nome "Arsenio", connotante esperienze
lontane) ma un più deciso riconoscersi sulla linea del
negativo che avvolge il pianeta. La storia si riduce a
dato esterno e atemporale, fatta com'è "in un mondo che
non si muove"; cosicché, in questa come nelle due poesie
d'identico titolo che seguiranno, emerge tra il "prima" e
il "dopo" l'impossibilità d'esistere in una dimensione
umana. "Nelle stalle d'Augìa" degli anni fascisti "qualche
mano / che tentava invisibili spiragli / insinuò il suo
memento": gli oggetti totemici d'un tempo che ora, nel
precario presente del "dopo", incombono, intermediari
quasi muti coi quali si possono avere solo rapporti
intuitivi, fondati più sulla certezza esistenziale che
sulla consapevolezza concettuale. Da questa riduzione che
rifiuta ogni sacralità negativa si giunge alla dimensione
privata degli "Xenia", dove, "sospeso al filo di una
chiamata senza voce", Montale
si rivolge alla moglie morta in un colloquiante monologo
che nel variare di modi e ritmi entro il quadro stabilito
da "Botta e risposta I", è il ritratto "d'un uomo senza
possibilità di soccorso" (Bo). Di questa esperienza tutta
privata è conferma il degradarsi dei totem a oggetti
legati a una concreta vicenda quotidiana: alla dimensione
universale intessuta della presenza trasfigurante di
Clizia si sostituisce il dramma privato della morte di
Mosca, dramma cui Montale
riporterà ogni delusione storico-politica: "L'alluvione ha
sommerso il pack dei mobili... / Anch'io sono incrostato
fino al collo... / di una realtà incredibile e mai
creduta". Né è un caso che a simbolo poetico assurga qui
l'oggetto deietto per antonomasia, "l'ultimo fico secco".
La morte di Mosca segna un momento decisivo, che rompe e
rafforza al contempo i legami poetici col passato,
filtrato attraverso il nuovo atteggiamento psicologico di
Montale
che sempre più vede nella rinuncia al possesso d'una
qualsiasi certezza positiva l'unico valore di un discorso
poetico in cui, nella fattispecie, s'intrecciano la
stanchezza esistenziale, l'avversione ideologica alla
"focomelia concettuale" e la perplessità sull'efficacia
d'ogni resistenza. Molte liriche ispirate a Mosca si
ritroveranno in "Satura", dove però il tono
filosofico-dialettico in chiave ironica domina su quello
lirico. Qui infatti le poesie, che sono anche di poetica o
a soggetto, offrono, attraverso la degradazione del
linguaggio, "un molto di peggio che è tale anche perché da
tempo è passato sulle pagine dei giornali, ne ha l'inane,
sopraffacente rigurgito di ripetitività" (Zanzotto). È un
eterogeneo insieme di forme poetiche che "parlano
all'orlo", negando sia l'ormai banalizzata distruzione
della lingua, sia la lingua piena, sia il "mezzo parlare"
al quale Montale
dice di rassegnarsi eludendolo di fatto col sottintendere
"che, in una satyra, nemmeno la prosa è prosa, se la
poesia non è poesia" (Zanzotto); ed è anche l'insieme di
coordinate ideali del poeta giunto ormai "prima del
viaggio", certo solo del fatto che "c'è tra il martire e
il coniglio, / tra la galera e l'esilio, / un luogo dove
l'inerme / lubrifica le sue armi, / poche ma durature" e
questo luogo è l'"essenza della memoria" dove vivono
"ombre che si nascondono tra le parole", le sole che
"hanno una forma di sopravvivenza / che non interessa la
storia". In questa condizione al limite tra esistenza e
inesistenza ecco la necessità - giocata sul celembours che
rimandato a certo Browning - di basi ontologiche per una
poesia tesa a definire per litoti la storia e il rapporto
uomo-Dio. Ritorna prepotente un antistoricismo prossimo
all'anticausalismo di Boutroux: nel mondo di detriti
dominato dalla "sibilla trimurtica" di "tesi-antitesi-sintesi",
gli angeli resteranno pur sempre "inespungibili refusi".
Di fronte all'irrazionale della storia, colpevoli di abuso
sono gli storicisti o Teilhard de Chardin che riassume il
velleitario paradosso di uno storicismo trascendente. Nel
mancato rifiuto delle dottrine, Montale
vede l'incapacità umana alla libertà; tutto il libro è
dominato da una pietà profonda, non storica ma
esistenziale, per chi vive in un "quaggiù" dove l'unica
"decenza" sarà ormai il rifiuto del mondo: "resistere al
peggio che simula / il meglio" non basta più nel diluvio
di cui l'inondazione fiorentina è l'anteprova simbolica. E
cosa resta a uomini ridotti a "disguidi", "bozze scorrette
che il Proto / non degnò d'uno sguardo"? "L'angelo nero" è
convincente testimonianza dello smarrimento "tra bisogno
d'un punto d'appoggio e incapacità a sopportare il peso
d'una qualsiasi verità" (Carpi) mentre "Rebecca" è il
consuntivo, in perdita, di un'attività - l'esercizio della
parola poetica - irrimediabilmente incapace di salvezza.
Al poeta chiuso nel suo sistema verbale resta di sapere
che "Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola" e
ogni difesa ne segna l'ineluttabile estraneità: "Astuto il
flamengo nasconde / il capo sotto l'ala e crede che il
cacciatore / non lo veda". |
|
|
|