Parliamo di |
|
Autori
del Novecento italiano Giovanni Pascoli |
|
|
|
|
|
|
|
Assiuolo |
|
|
Abbiamo accennato nel Profilo
all'importanza che nell'ideologia e nella poesia del
Pascoli ha il mito (tradotto in una metafora) del "nido".
Esplicitamente nominato in questa lirica, il nido come
caposaldo ideologico, come groviglio di legami tra i
familiari viventi e tra questi e i loro morti ritorna in
tante liriche di Pascoli (La voce, La cavallina storna,
Romagna, Il nido dei farlotti, ecc.). Su questo argomento
ha scritto Giorgio Barberi Squarotti:
Nella dissoluzione della società che non sa dare misura e
valori e propone costantemente la volgarità o la pena, il
dolore o il male, l'estremo e unico rifugio appare al
Pascoli, appunto, il «nido» familiare, a cui partecipano,
legati dagli affetti e dalle complicità irrazionali del
sangue, i vivi e i morti della famiglia, costituendo il
luogo caldo e accogliente di un rifugio (non idillico,
tuttavia, mai) di fronte a una storia che presenta
immagini d'orrore, d'oppressione, di morte, e di fronte a
una condizione umana che è dominata dal terrore
onnipresente della morte, che rende illusioni i gesti
degli uomini, e ne segna d'inutilità ogni tentativo
d'emergere, anche il male e il dolore inflitti (si leggano
Nel carcere di Ginevra, Il Negro di Saint-Pierre, Al Re
Umberto). I rapporti sociali si riducono al nucleo
«privato», avulso da ogni contatto, che è il «nido» (e il
simbolo ornitologico è proprio dal Pascoli insistentemente
usato per indicare tale stato). Dapprima, il «nido» è
esclusivamente quello familiare, popolato di pochi vivi e
di un'infinità di morti dolenti e aggressivi (i maligni,
aspri, insistenti, queruli morti familiari del Pascoli):
fra i quali sono anche la madre, i fratelli, le sorelle,
tutti ugualmente connotati dal pianto e da un inesauribile
rancore: quello ferito a morte dalla malvagità degli
uomini (Il giorno dei morti; accenni in Romagna; X agosto;
La notte dei morti; La tovaglia; Il nido di «farlotti»).
In essi domina, custode, la madre: che è la depositaria
delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca
il giovane figlio al rito crudele e inesorabile
dell'investitura della vendetta contro l'assassino del
padre (La cavalla storna), quella che viene con la «voce
stanca, voce smarrita, Col tremito del batticuore» a
rimproverare più che a confortare il figlio tentato di
morire.
L'ASSIUOLO
L'assiuolo è un rapace notturno (in Toscana detto
popolarmente "chiù" per il verso che emette) spesso
presente nella poesia di Pascoli e generalmente sentito -
come d'altra parte nella tradizione popolare - quale
simbolo di tristezza e di morte. Il suo verso inquietante
scandisce la lirica e via via si carica di valenze
simboliche: dall'iniziale «voce dai campi» (v. 7) diventa
«singulto» (v. 15) e infine «pianto di morte» (v. 23).
Come primo avvio alla lettura di questa lirica tramata di
sottili rapporti ci sembrano pertinenti queste
osservazioni di E. Gioanola e I. Li Vigni: «Siamo alle
soglie dell'alba un'alba di luna - e il lugubre grido
dell'assiuolo, annunciatore di morte nella credenza
popolare, agisce probabilmente nella semincoscienza del
dormiveglia e suscita una serie di immagini inquietanti,
tutte più o meno riferibili alla realtà, ma travolte nella
loro essenza e nel loro ordinamento sintattico da un forte
vento d'angoscia. E naturalmente i versi, che nascono su
un materiale così poco coordinato come quello onirico,
svolgono un discorso per elementi staccati; non
logicamente dipendente, secondo una sintassi franta, a
blocchi giustapposti. L'origine dello stile pascoliano è
proprio qui».
La lirica fu inclusa nella quarta edizione di Myricae
(1903).
Ad integrazione di quanto si è detto nella presentazione,
per aiutare a cogliere meglio la cifra di questa lirica-
il trasformarsi del dato naturale in dato simbolico -,
aggiungiamo alcune osservazioni, derivate e opportunamente
mediate da un famoso saggio di Gianfranco Contini. Il
quale rileva che alla base della poesia del Pascoli c'è
una dialettica fra determinato e indeterminato, fra
precisione e imprecisione, fra oggetti «determinatissimi e
computabili» e «sfondo effuso» sul quale essi si situano.
Dato, questo, che risulta con particolare evidenza in
liriche come Nebbia, Gelsomino notturno, L'assiuolo.
«E che il fondo generale sia effuso e diffusivo, alta
imprecisione qui condizionata da un'alta precisione, è
questo un dato che ricollega Pascoli al maggior
laboratorio simbolistico: diciamo, a Mallarmé e alla sua
condanna del "sens trop précis", oppure al programma
verlainiano ("De la musique avant toute chose", "De la
musique encore et toujours")» (Contini).
Per creare questa indeterminatezza e questa imprecisione
il poeta ricorre a vari sintagmi, riconducibili più o meno
al paradigma «nero dì nubi» (v. 6). E a questo proposito
il Contini scrive:
Non da «nubi nere», ma «da un nero di nubi»: è cioè
estratta la qualità, e i sostantivi servono soltanto a
determinare, come se fossero essi gli epiteti, la qualità
fondamentale. Questo procedimento non è evidentemente
invenzione di Pascoli, benché sia stato elaborato non
molti decenni prima di lui, nella cultura francese, e più
precisamente, secondo la constatazione d'uno specialista
tedesco, dai fratelli de Goncourt. È questo uno fra gli
istituti tipici di quello che gli studiosi di stylistique,
e in particolare uno dei fondatori della scuola ginevrina,
Charles Bally, definiscono impressionismo linguistico. Il
proverbiale esempio del Bally è une blancheur de colonnes
per des colonnes blanches, dove si vede che il rapporto di
sostanza ed epiteto si inverte, perché fondamentale è
l'epiteto e le sostanze servono soltanto a caratterizzare
l'epiteto. Tra le formule che nella loro essenza ho detto
sinonime di questo tipo sintagmatico, ve ne sono anche di
quelle che sono costituite da onomatopee, per esempio fru
fru (pur promosso qui a sostantivo), per di più «sentivo
un fru fru tra le fratte», presenta una serie allitterante,
per gruppo consonantico identico in fru fru e fratte, e
affine se si aggiunge tra. Ma vedete: «sentivo un fru fru
tra le fratte» è in parallelo a «sentivo il cullare del
mare» e a «sentivo nel cuore un sussulto». Cullare, come
sussulto è un vocabolo dei vocabolari, semantico dunque,
tuttavia fornito di un plusvalore onomatopeico; e, in
aggiunta a questo fonosimbolismo naturale, altro ne ricava
dalla collocazione, poiché cullare, rimando, all'interno
dello stesso verso, con mare, fissa l'ansito della marea,
e sussulto, gettando un'assonanza al verso successivo, fu
(assonanza normale, a fine di fusione mistica, nella prima
metà della strofe: rare con latte, come cielo con perla,
vette con vento), segna un crescendo dell'azione. Di più:
i sintagmi impressionistici o fenomenici come nero di nubi
(con aggettivo sostantivato) o cullare del mare (con
infinito sostantivato) o anche soffi di lampi o sospiro di
vento hanno la medesima struttura formale dell'altro tipo
concorrente alba di perla o nebbia di latte, o anche
sistri d'argento o pianto di morte.
Queste osservazioni chiariscono a sufficienza la sapienza
tecnica e la raffinata preziosità della migliore poesia
pascoliana. Ma si presti attenzione anche al gioco dei
parallelismi (vv. 11, 12, 13) e delle allitterazioni (vv.
12, 13, 15, 19), all'utilizzazione del linguaggio
pre-grammaticale (chiù) in funzione fonosimbolica.
La rappresentazione paesistica complessiva è ottenuta
attraverso l'accumulazione di singoli dati, di notazioni
isolate che però nel contempo si legano analogicamente
l'una all'altra; la prima - isolata - è una notazione
acustica, tutte le altre che seguono e fanno corpo sono
impressioni visive. Si noti che la riduzione
all'essenzialità dell'impressione si risolve nell'adozione
di uno stile nominale (tranne che per il v. 2, che
contiene l'unico verbo predicativo della lirica) e che
«perfino la similitudine tra il bianco del casolare e
l'ala del gabbiano (vv. 6-7) si scompone in due momenti
diversi che valgono in se stessi, solo per l'impressione
di colore» (Melotti).
|
|
|
|