Letteratura italiana: Giovanni Pascoli

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Parliamo di

  Autori del Novecento italiano Giovanni Pascoli
Critica di
  Claude Cènot

 


Myricae
 

È il primo volume di liriche. Apparso nel 1891, portò l'annunzio di una nuova poesia. Da soli 21 componimenti crebbe via via sino ai 150 circa dell'edizione definitiva del 1903. La sua cornice è costituita da due componimenti funebri, "Il giorno dei morti" e "Colloquio", e resta come il sottinteso o filo conduttore dell'ispirazione di tutto il libro. Secondo il titolo desunto da Virgilio: "arbusta iuvant humilesque myricae", umili le poesie e brevi, ispirate dalla natura, dal raccoglimento del cuore, tutte insieme quasi un diario o giornale della vita intima, sentimentale del poeta. Non sempre identica a se stessa perciò, nel tempo, l'ispirazione, ma varia nei momenti, nelle intonazioni, nelle gradazioni e che non si lascia "raccontare" o fermare in una nota sola. Le poesie si ordinano per temi, ciclicamente: a ogni tema corrisponde un gruppo sotto un suo titolo: "Dall'alba al tramonto", "Ricordi", "L'ultima passeggiata", "Pensieri", "In campagna", "Tristezze", "Dolcezze" ecc., tolti pochi componimenti rimasti a sé. Nelle poesie più antiche risalenti al 1882-86, la nota più serena, giovanile diremo, e con risonanze carducciane o di Severino Ferrari, la malinconia che li pervade è di una raccolta aspettazione e sospensione dell'animo: tali "Romagna", "Rio Salto", "Il bosco", "Il fonte", "Il maniero", "A Scandiano", i sonetti cioè, detti cavallereschi: e sono divini smarrimenti entro aerei paesaggi di sogno popolati di visioni lontane, incantamenti. Ma tosto si passa ai paesaggi novembrini, vespertini e notturni, e il distacco della vita, il senso più presente del nulla o della morte si accentua nella solitudine e approfondita concentrazione interiore: "I gattici", "Il nido", "La siepe". Il dolore si fa immanente alla vita dell'uomo e, trasfondendosi nel paesaggio, immanente alla vita della natura medesima, con una comunione ideale sempre più intima: "Paese notturno", "L'Assiuolo", "La civetta". E nel dolore il ricordo di una felicità infranta, fata morgana risorgente, di cui egli si fa pellegrino in un perpetuo andare: "La felicità", "Allora", "Rammarico", "In Cammino". Magicamente ("Il Mago", "Il miracolo", "Fides") ciò che è distrutto è ricreato, e per un momento il poeta vi si abbandona, onde la dolcezza accanto alla tristezza ("Dialogo") in un'alterna vicenda e senza contrasti, perché ambedue trasportati in una sfera irreale. L'attimo dolente si scioglie spesso a un richiamo di debolezza, di vita, in un sorriso ("Nella macchia"), quello di stasi o di sogno si rompe in uno di cupezza, di morte ("I tuoni" "Canzone d'aprile", "l'Assiuolo", "La civetta"). Ma dovunque una sosta d'ansia inquieta e che più ci colpisce perché riflessa nel paesaggio con una lucida fissità che richiama l'arte greca. Attimi e come frammenti di vita, in impressioni, quadri di genere, vignette, ritratti ecc., ma con in sé un'esistenza compiuta, con risonanze dall'uno all'altro che li legano, nel distacco, in un'unica armonia, che è quella del creato stesso: e il poeta comunica con le cose attraverso le sue sensazioni in corrispondenze senza diaframma. Di qui la loro tenuità, che è spiritualità, o immaterialità, e la musicalità del loro respiro, in un impasto di colori e suoni, che è il gran segreto dell'arte pascoliana di Myricae.

Nella sua poesia rare volte si sente l'indefinito. Il fantasma poetico non sorge dalla melodia e non ne riceve quasi mai significazioni notevoli. La maggior importanza invece è da lui data all'elemento plastico. Egli ha delle cose una visione chiara e precisa; e le rappresenta nelle loro linee visibili, quasi sempre, con rara evidenza. Per queste rappresentazioni egli ha parole quasi direi lineari, che disegnano, e parole succose che coloriscono. Ma "di là" dal paesaggio e dalla figura la vista interiore non percepisce null'altro; e i "gruppi invisibili", per usare la frase di Federico Amiel, rimangono occulti, sepolti, perché nessun'altra potenza, trascendente quella ch'io chiamerò grafica, concorre ad entrambi. Dirò alla fine, sperando d'esser meglio inteso, che in questa poesia manca il mistero. (D'Annunzio).

I versi di Myricae, nella lor brevità compiuta, hanno talora un'eleganza di greca fattura. (F. Flora)

 

Luigi De Bellis