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Nel
capitolo conclusivo de La casa in collina, nel quale in
modo più evidente che in altre pagine del romanzo è
riconoscibile un tema che non solo ispira quest'opera, ma
permea di sé tutta la produzione di Pavese. Esso consiste
nello scontro drammaticamente sentito e mai risolto tra
desiderio di comunicazione e regressione nella propria
intimità psicologica, nella ricerca di una propria
mitologia dell'infanzia e della terra d'origine, in una
parola nella propria solitudine. Corrado, il protagonista,
mentre i suoi compagni in seguito alla caduta del fascismo
scelgono la strada dell'impegno e della lotta, si rifugia
nelle native colline, nelle Langhe. Ma neppure la mitica
terra dell'infanzia sfugge alla realtà storica: anche là
arrivano la guerra e le lotte degli uomini, anche là i
morti sparsi per la campagna costringono il protagonista a
meditare sulla sua vita e sulla sua scelta. E allora
proprio nelle Langhe vagheggiate come paese d'infanzia, di
scappate, di giochi, e che ora lo costringono a guardare
in faccia la morte, il protagonista scopre che la sua vita
è stata «un solo lungo isolamento, una futile vacanza».
De La casa in collina sono state date letture diverse da
quella etico-politica che noi abbiamo privilegiato. Ecco,
ad esempio, quanto scrive, a proposito di questo romanzo,
Armanda Guiducci.
Su un primo livello, il più evidente sul quale è sempre
stato interpretato, il romanzo è un esame di coscienza,
una confessione impietosa, una trasfigurazione
autobiografica lucida e terribile. Svolge, come una via
crucis, l'itinerario di una coscienza che si guarda e si
ritrova colpevole, con un radicalismo, una forza di
distaccarsi dall'amore per sé, che battono di molte
lunghezze l'ancor ambiguo, difensivo narratore de Il
carcere. Su questo piano, La casa in collina è veramente
«la storia di una lunga illusione».
Ma al di sopra, sull'altro piano, si disegna nel romanzo
uno scontro e un raffronto problematico fra la città (o
mondo dell'accadere storico, della brutalità degli eventi
mossi dalla volontà umana, e del «selvaggio» che è nella
città e civiltà e storia) e la collina, teatro del
selvaggio naturale (sangue nei boschi, sangue assorbito
che rifiorisce in natura, esplosione sotterranea e perenne
delle forze naturali in un ciclo imperturbabile in cui
ritorna l'essere delle cose). Si realizza così, fra il
polo realistico del selvaggio cittadino o storico e quello
metaforico del selvaggio naturale, un secondo senso più
vasto e ambiguo del romanzo. Si ha qui una messa in
rapporto fra il tempo metafisico dell'essere e il tempo
storico degli eventi (di cui la guerra diventa il più
grande traslato).
L'ideologia non basta a giustificare i nemici uccisi, le
ragioni storiche per lo scrittore del '47-'48 non sono
ancora sufficienti. Forse la charitas cristiana aiuta a
trovare ragioni per i nemici uccisi? Ma anche la religione
sembra rientrare nella storia disperata dell'uomo. Si
disegna allora sul secondo piano un senso ultimo di
nichilismo vero e proprio: nella storia (dove non esiste
vera pace, vera salvezza per l'uomo), si ripete,
nell'orrore e nel sangue, la distruzione che è eterna
qualità < selvaggia» dell'essere, la cui essenza,
dionisiaca e nietzscheana, sta nell'eterna creazione e
distruzione di sé. E perciò si deve nutrire pietà per
tutti i morti, e il fratricidio è di tutte le guerre
(«ogni guerra è una guerra civile»). Questa maggiore
problematicità collega perfettamente e direttamente il
romanzo a Il diavolo sulle colline, che riapprofondirà il
tema del «selvaggio naturale» della collina come teatro
dionisiaco e, soprattutto, a La luna e i falò, di cui La
casa in collina costituisce, in un certo senso, una sorta
d'introduzione. |