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Tratto
da Feria d'agosto, questo racconto (ma al termine è
alquanto improprio) è incentrato su un tema fondamentale
della produzione pavesiana, già esplicitamente indicato
sin dal titolo. La Langa - paese dell'infanzia per Pavese
- diventa per antonomasia il paese, l'humus dove affondano
le radici della personalità individuale, il luogo naturale
e mitico nel contempo - che ne forgia il destino, la
sostanza di cui sono fatti al sangue, le ossa, il respiro
di ognuno.
Pavese aveva attirato l'attenzione e gli entusiasmi della
critica con la pubblicazione di Paesi tuoi (1941), di cui
sembravano caratteristiche salienti il realismo,
l'immediata aderenza al mondo popolare e contadino, il
robusto linguaggio. La pubblicazione di Feria d'agosto nel
1946 disorienta la critica: quest'opera infatti
contraddice (così almeno sembra) la lettura di Pavese che
era stata avviata nel 1941, appare anzi un abbandono di
quella cifra realistica che gli era stata attribuita. In
realtà Feria d'agosto è un'opera rivelatrice e getta luce
sul precedente romanzo Paesi tuoi (pur se notevolmente
diversa), nel senso che fa constatare come in Pavese sia
sempre presente una tecnica, una modalità compositiva che
egli con piena consapevolezza critica illustrerà in una
dichiarazione del 1950: «Quando Pavese comincia un
racconto, una favola, un libro, [...] quello che ha in
mente è quasi sempre soltanto un ritmo indistinto, un
gioco di eventi che, più che altro, sono sensazioni e
atmosfere. Il suo compito sta nell'afferrare e costruire
questi eventi secondo un ritmo intellettuale che li
trasformi in simboli di una data realtà». Alla luce di
queste indicazioni e dopo l'esempio di Feria d'agosto,
nella quale esse trovavano una felice applicazione, anche
Paesi tuoi doveva essere letto diversamente da come prima
si era fatto, non più come prova realistica, ma come
ricerca di un'atmosfera primitiva e barbarica. La Langa
affronta un tema ricorrente nella narrativa di Pavese: il
ritorno al paese da cui ci si è allontanati per girare il
mondo, come nella lirica Mari del Sud. Sennonché là il
protagonista torna, si sposa e coltiva discreto il suo
sogno di mari aperti (nostalgia del mondo girato o del
girare il mondo), mentre qui il protagonista torna senza
sposarsi e riparte per poter coltivare il ricordo
nostalgico del paese natale: «Capii subito che se mi fossi
portata dietro in città una di quelle ragazze, anche la
più sveglia, avrei avuto il mio paese in casa e non avrei
mai più potuto ricordarmelo come adesso me n'era tornato
il gusto» (rr. 40-42, si noti che è qui, come altrove,
implicito un giudizio negativo sul paese reale e la sua
gente); «capirebbero che li ho giocati, che li ho lasciati
discorrere delle virtù della mia terra soltanto per
ritrovarla e portarmela via» (rr. 65-66, dove è chiaro che
il ritorno al paese reale non ha significato ritrovare il
paese che l'emigrante portava nel cuore). Ripartire è
insomma voler rimanere fedele al paese mitico che è stato
una volta per tutte e non può subire l'oltraggio del
divenire storico.
Ma si noti anche che questa situazione ribalta quella che
si era affacciata all'inizio del racconto: il protagonista
stava per sposare una ragazza straniera: «Non lo feci,
perché avrei dovuto stabilirmi laggiù, e rinunciare per
sempre alla mia terra» (rr. 17-18). È un destino di
inquietudine e sradicamento (nonché di impossibilità del
matrimonio) che ci viene raccontato: l'esperienza
dell'allontanamento determina una cesura insanabile con il
passato ormai "mitico".
Dal punto di vista formale questo racconto è un monologo,
che fonde componenti liriche narrative e riflessive, non
molto diverso da quello di Lavorare stanca. I confini tra
narrativa e lirica in Pavese sono sovente assai labili. |