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È la più importante tra le opere postume di Pavese e
quella che, per la sua natura autobiografica, ha fatto
nascere il maggiore interesse intorno alla figura dello
scrittore. Pubblicata a Torino nel 1952 da Massimo Mila,
Italo Calvino e Natalia Ginzburg, essa riproduce
integralmente, salvo alcuni riferimenti personali o troppo
intimi, il manoscritto trovato con questo titolo e con la
scritta "Diario 1935-1950" tra le carte di P. dopo la sua
morte. Una prima parte dell'opera (ottobre-dicembre 1935,
febbraio 1936), scritta al confino di Brancaleone Calabro,
reca il titolo di "Secretum professionale", e più che il
"mestiere di vivere" riguarda il mestiere di poetare di
P., disponendosi come ideale continuazione di quel saggio
autocritico sulle sue prime poesie, intitolato appunto "il
mestiere di poeta", che compare in appendice a Lavorare
stanca. Il diario assume invece la sua propria fisionomia
a partire dal 10 aprile 1936: si tratta di ricercare a
posteriori non più soltanto la legge poetica interna alla
propria opera letteraria, bensì anche quella, e sia pure
la stessa, che governa dal di dentro la propria vita, e
che caratterizzando via via i singoli accadimenti e
pensieri ch'egli annota, potrà successivamente risultare
anche dall'accostamento di note lontane tra loro, ma
unificate da un dato comune, da una insistenza
significativa (cfr. le note del 9 maggio '36 e 22 febbraio
'40). Salva dunque la possibilità di utilizzarlo come lo
Zibaldone per Leopardi, cioè in funzione delle opere più
propriamente creative di P., delle quali fornisce notizie
importanti sulle circostanze biografiche, sulla genesi e
soprattutto sulle premesse ideologico-estetiche e
culturali (di particolare rilievo le testimonianze sulla
formazione della dottrina del "mito", le varie
osservazioni sul "primitivo", i giudizi su autori antichi
e moderni), è certo che il diario va letto soprattutto
come una vera e propria opera narrativa, sia pure di quel
tipo "aperto" che esclude ogni prestabilita struttura e
direttiva ideale prevedendo una "costruzione che si faccia
da sé". In questa prospettiva non è difficile scorgere la
linea parabolica di una significativa evoluzione
spirituale. Dai propositi di costruzione interiore, di
maturazione morale e sociale, di "indurimento" sia contro
le tendenze persistenti dell'adolescenza sensuale e
dispersiva, sia contro le ferite provocate dall'esperienza
dell'amore e della donna (note dal '36 fino al '40) si
giunge via via alla constatazione dell'inutilità di ogni
sforzo morale ("ciò che si è fatto si farà ancora e anzi
si è già fatto in un passato lontano", 4 aprile 1941), e,
di contro, alla scoperta della possibile risoluzione
dell'angoscia dell'uomo che ha conosciuto il destino nella
felicità del poeta e che di quel destino, tutto già
scritto nell'infanzia, farà il fondamento della propria
libertà creativa. L'arco centrale della parabola è
rappresentato appunto dagli anni, dal '42 al '45, del
massimo fervore meditativo e poetico. Ma già verso il '46,
dopo una non risolutiva crisi religiosa, di cui restano
notevoli testimonianze nelle note del '44-'45, pur sotto
le apparenze positive di un'attività che rimarrà intensa
fin verso la fine, riappaiono i segni del male latente,
del problema morale non risolto: sentimento di solitudine
e di tedio, il pensiero del suicidio, l'impressione di
aver bruciato, nello stesso fuoco creativo, ogni residuo
di vita interiore, di essere "come un fucile sparato". E
dal maggio del '50 la parabola precipita addirittura verso
la catastrofe. Variamente giudicato dai critici, da taluni
accostato ai quaderni intimi (Il mio cuore a nudo) di
Baudelaire, da altri ai Diari di Hebbel, il Mestiere di
vivere si colloca in ogni caso, al di là del suo
significato autobiografico, tra le testimonianze più
dirette e più autentiche, per serietà di impegno e per
profondità di scavo, sulla crisi della cultura
contemporanea, ai limiti di un decadentismo che si rivela
incapace di rispondere alle istanze più profonde dell'uomo. |