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L'ambiguo realismo di Paesi tuoi
C'è tra i personaggi de Il carcere la figura di Concia -
una serva dal «passo scattante e contenuto», dal «viso
bruno e caprigno con una sicurezza ch'era un sorriso» - la
cui rappresentazione si carica di significati simbolici:
una sorta di «immagine mitica di un mondo sognato, dove
l'uomo e la natura si riscoprono compenetrati l'uno
all'altro» (De Michelis), una suggestione di "natura", di
"primitivo", di "ferino" insomma. Sono motivi, questi, che
qui appena accennati ed allusi torneranno e si
dispiegheranno in Paesi tuoi, scritto subito dopo, dal 3
giugno al 6 agosto 1939, e pubblicato nel 1941 come primo
testo della "Biblioteca dello struzzo", la prima collana
einaudiana di "Narratori italiani contemporanei".
Il romanzo attirò subito su Pavese (conosciuto sino allora
soprattutto come traduttore) l'attenzione - in parecchi
casi entusiastica - della critica qualificata e contribuì
a creare quell'equivoco sul suo "realismo" che sarebbe poi
stato ripreso ed enfatizzato negli anni degli entusiasmi
neorealistici, dopo il '45. In realtà la descrizione di
una campagna primitiva e barbarica, i temi delle violente
passioni e del sangue (l'inclinazione incestuosa di Talino
per la sorella che lo spinge ad ucciderla), (adozione di
un linguaggio che in consapevole polemica con la prosa
d'arte si sostanzia di materiale dialettale e di moduli
del parlato vanno inseriti all'interno della ricerca
artistica in progress di Pavese, rapportati al suo
universo culturale, alle suggestioni che gli derivano dai
testi frequentati, e a quello che la sua produzione
posteriore a Paesi tuoi ci ha fatto capire. E allora
risulta evidente che in questo testo tutto sommato di non
facile valutazione - bisogna andare oltre l'apparente
oggettività naturalistica e prestare attenzione alla
presenza di temi e di atteggiamenti che abbiamo già visto
(e vedremo) costanti in Pavese: il rapporto/contrasto
città-campagna (è attraverso la sensibilità del
"cittadino" Berto che la cruda vicenda campagnola viene
per così dire filtrata e raccontata); le suggestioni, più
che di Verga, degli americani - da Steinbeck a Cain a
Whitman - frequentati e tradotti e mitizzati sia come aedi
di un'umanità primitiva, barbarica e libera, sia come
modelli di un linguaggio antiletterario (che è in .realtà
- sia pure all'incontrario - una forma di letterarietà);
la tendenza a conferire una dimensione mitica, rituale, a
ciò che a prima vista potrebbe essere scambiato per
registrazione naturalistica (un esempio sul quale parecchi
critici hanno richiamato l'attenzione: l'assassinio di
Gisella da parte del fratello Talino e la sua lenta morte
per dissanguamento hanno < il valore mitico di un rito
iniziatico - il sacrificio per le messi - e non certo
quello realistico di documento sociale», come scrive
Luperini).
Le riflessioni sul mito
D'altra parte a una lettura del reale in chiave simbolica,
a vedere nel mondo della campagna - contrapposto sempre,
prima con l'istintività dell'esperienza biografica, poi
con consapevolezza teorica, al mondo cittadino - una trama
di significati rituali, di sensi ancestrali Pavese era
spinto dall'attenta lettura - a cavallo del 1940 - delle
opere di etnologi, di antropologi, di studiosi del sacro
(un interesse questo che sul piano editoriale si
concreterà nella citata "Collezione di studi religiosi,
ernologici e psicologici").
Si delineava così via via .la sua concezione del mito, che
è parecchie cose insieme: un tentativo di risposta ad una
lacerante esperienza biografica; una razionalizzazione -
in una prospettiva storica e autobiografica - della
solitudine e l'indicazione - a se stesso quasi prima che
agli altri - per un suo possibile superamento; un
complesso di interessi culturali che determineranno o
chiariranno i suoi principi di poetica. Si tratta di
un'elaborazione molto complessa che ora cercheremo di
spiegare, ben consapevoli però che non si può rendere
facile ciò che facile non è.
Dalla meditazione sul Vico, dagli studi di etnologia,
dalle suggestioni dell'irrazionalismo decadente Pavese
deriva un'idea-base secondo la quale in noi, in un
aurorale contatto col mondo, si creano miti, simboli, che
assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma
definitiva e determinante per i1 futuro: una sorta di
memoria del sangue. Il mito, in altre parole, «è un fatto
avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di
significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia
appunto della sua fissità, non più realistica [...]. Esso
avviene sempre alle origini, come nell'infanzia. [...]
Tutto è nell'infanzia, anche il fascino che sarà a venire
[...]. Così a ciascuno i luoghi dell'infanzia ritornano
alla memoria; in essa accaddero cose che li han fatti
unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo
suggello mitico». Ma l'infanzia finisce o comunque la vita
allontana dal mondo dell'infanzia, dai luoghi e dai miti
che ad essa appartengono, ed ecco l'esperienza della
solitudine, di un epidermico rapporto con gli altri che
non tocca le ragioni profonde del nostro essere, ecco la
consapevolezza dell'estraneità, dell'inaridirsi: come di
un albero trapiantato in un terreno non adatto.
Il problema - come abbiamo premesso - è certamente
complesso, ma dai passi citati .risulta evidente quanto
lontano sia Pavese da ogni intento di rappresentazione
realistica. Ne deriva, come principio di poetica, che il
compito dell'artista consiste nell'escavazione di questo
fondo mitico, primigenio e irrazionale che è lo specifico
patrimonio di ogni essere umano, nel recupero dei momenti
esemplari e determinanti, per il futuro, di una
personalità e di un destino umano, nel dar forma e parola
a tutto ciò: «l'arte moderna è, in quanto vale, un ritorno
all'infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose,
scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura,
soltanto nel ricordo dell'infanzia». |