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Le pagine di La luna e i falò - vanno lette avendo
presente quanto è detto altrove su quest'ultimo romanzo di
Pavese. IL capitolo III è centrato sull'esperienza di
estraniato e di sradicato che Anguilla, il protagonista,
fa in America e sul bisogno del ritorno, della
ricognizione delle proprie radici che da ciò deriva.
Il capitolo riportato fornisce un'esemplare testimonianza
del ritmo narrativo che Pavese ha conquistato via via e
che si caratterizza per la rapidità, la facilità (quasi
"naturale") dei trapassi dal presente al passato,
dall'esperienza immediata e contingente al ricordo, al
vagheggiamento memoriale. La voce narrante è quella di
Anguilla, il protagonista, che rievoca la sua esperienza
americana mettendo in luce quanto di estraniante essa ha
comportato; questo senso di estraneità deriva però dalla
memoria delle Langhe. E allora la narrazione è finalizzata
appunto a "contaminare" queste due esperienze di vita, a
vedere l'una (quella americana) attraverso la memoria
dell'altra: le donne, le bevande, la musichetta, le
montagne americane sono - in un sapiente
contrappunto-opposte all'esperienza paesana «questa roba
che si beve» alla «bottiglia»; questa « musichetta» al
clarino di Nuto e alle feste paesane il cui ricordo
fermenta e si ingigantisce nella memoria. L'irruzione del
presente che interrompe il vagheggiamento memoriale è, non
casualmente, scandito dalla iterazione di una sorta di
formula; «Nora, irritata... si girò...»; «Nora gridò»;
«Nora mi chiamò».
Nel capitolo inoltre è da sottolineare una sorta di
ribaltamento di quel mito dell'America che Pavese, assieme
a Vittorini, aveva creato con le sue traduzioni e i suoi
saggi; ora invece l'America è vista come paese dell'inautentico,
dell'alienazione, della solitudine esistenziale. A questo
proposito va precisato che la rappresentazione dello
spazio è, in queste pagine, funzionale a tale valutazione:
rifacendosi alla distinzione che in narratologia viene
fatta tra spazio chiuso e spazio aperto, notiamo che qui
lo spazio aperto suggerisce impressioni di solitudine,
carenza di rapporti umani, estraneità con la natura (rr.
85-86: «quelle montagne... nessuno le aveva toccate con le
mani»)... |