Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano:
PIRANDELLO |
Critica
all'opera |
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Gerardo
Guerrieri |
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I
giganti della montagna |
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"Mito" incompiuto.
Egli ne compose mentalmente il terzo atto nella sua
penultima notte di vita con la fantasia già colta dal
delirio, e solo alcune indicazioni lasciateci ci
permettono di concludere la vicenda. I resti di una
compagnia di commedianti, raccolta attorno alla contessa
Ilse, prima attrice, giungono dopo varie peregrinazioni a
una villa abbandonata e sperduta tra le montagne. La banda
che occupa la villa, Cotrone coi suoi Scalognati, fa di
tutto per spaventarli e allontanarli, con ogni sorta di
apparizioni e diavolerie, ma quelli prendono le
intimidazioni per ben riusciti trucchi da teatro.
Raccontano di andare vagabondando per rappresentare
l'opera di un poeta, La favola del figlio cambiato (opera
in quattro atti di Pirandello, musicata poi da Malipiero);
è Ilse che li trascina dietro di sé, presa dalla brama di
far rivivere, attraverso la continua rappresentazione
dell'opera, il giovane poeta che si è ucciso quando ella
rifiutò il suo amore per restar fedele all'arte. Cotrone
li invita allora a restare e mostra loro il suo magico
mondo, ai limiti della realtà, dove la fantasia è l'unica
creatrice: gli Scalognati non hanno bisogno che di questo
per fabbricarsi i fantasmi, le apparizioni, le tempeste,
la vita insomma che loro sovviene. Vi si sfugge a ogni
legame con la realtà, a ogni bisogno, col dileguarsi delle
necessità della carne. Ma l'inappagabile passione di Ilse
la spinge lontano: Cotrone si offre di condurli dai
Giganti della Montagna, razza violenta che solo si prodiga
in un presente benessere, e si esercita in opere grandiose
a dominare la terra. I Giganti, che non appariranno mai in
scena, permettono che i comici diano fra loro una
rappresentazione, pur non potendo assistervi a causa del
loro lavoro: lasceranno al popolino lo spettacolo della
poesia. Ma urla, fischi e lazzi accolgono le parole di
Ilse; essa insulta il pubblico; tra questo e gli attori
avviene una mischia e l'uccisione di Ilse. Con essa è
morta la Poesia: ma il fondo è per tutti la liberazione da
un incubo. Nell'ultimo capitolo pirandelliano, dell'accusa
e morte della Poesia, è riapparso il vecchio duello fra
spirito e materia: lo spirito perde essendosi staccato dal
suo naturale complemento, il corpo (il dramma delle crisi
nazionalistiche del dopoguerra). Ma in quest'opera, a onta
della folla di simboli, si afferma chiaramente una volontà
di credere. Pirandello, che ha rifiutato sinora la
testimonianza dei sensi perché fòmite di illusioni, li
abbandona adesso proprio per la ragione opposta, perché
inutili a costruirle. Rinnega infine, per analogia, la
ragione, che non è se non una trama di sensibilità essa
stessa. I discorsi di Cotrone tendono a un vago
irrazionale: "Non bisogna più ragionare. Privi di tutto ma
con tutto il tempo per noi, ricchezza indecifrabile,
ebullizione di chimere". In tale compiacimento per un
trito vocabolario e per decisione finalmente sentimentali,
i rapporti fra gli uomini e le cose sono forzatamente
cancellati, naufragano in una sorta di indistinzione. Se
la Poesia, come ogni sentimento umano, è incomunicabile,
la villa degli Scalognati rappresenta l'estremo riparo, la
vera Nuova Colonia. A uno scrittore così tediato dalla
realtà, e costretto a infelici fughe, era serbata, prima
di calare il sipario, l'avventura della fantasia. Con essa
egli ripropone un dualismo forse risolutivo; si avverte
non lontano il segnale della vittoria nei dialoghi non più
ciechi ma solcati dalla speranza, prossimi a una sintesi.
Colmati gli inutili dissidi e l'angustia che viene da un
troppo teso realismo, il mondo pirandelliano si sarebbe
ricomposto oltre le sue superficiali apparenze. Epilogo
inatteso, ma coerente, fedele alle proprie evasioni: c'è
una fede che prima non appariva, la fede nelle cose in cui
ciascuno vuol credere: e l'illusione, forse remota, di un
gratuito dono di verità, dietro le offese.
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