Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano:
PIRANDELLO |
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Il fu
Mattia Pascal |
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Pubblicato prima
(1904) a puntate sulla «Nuova Antologia» e nel 1910 in
volume, il romanzo scritto in uno dei periodi più
drammatici della vita di Pirandello, richiama sin dal
titolo l'attenzione
sulla paradossale vicenda del protagonista. Si tratta di
Mattia Pascal, che a conclusione di una boccaccesca
vicenda si ritrova ammogliato con Romilda Pescatore ed è
costretto a tenersi in casa la suocera, che con la sua
invadenza gli rende impossibile la vita. Asfissiato da una
situazione familiare che è un susseguirsi di frustrazioni
e di beghe, ed è aggravata dal dissesto finanziario,
Mattia decide di abbandonare la famiglia, l'impiego di
bibliotecario e il paese - Miragno sulla riviera ligure -
pronto ad imbarcarsi per l'America. Sulla via di
Marsiglia, si ferma a Montecarlo e alla roulette vince una
cospicua somma; decide quindi di ritornare a casa, ma ecco
che su un giornale legge la notizia... del suo suicidio:
come suo infatti è stato riconosciuto, dalla moglie e
dalla suocera, il cadavere di uno sconosciuto ritrovato in
quei giorni in paese. Alla iniziale indignata sorpresa
succede nell'animo di Mattia la gioia: gioia di potersi
liberare dalle angherie della vita familiare, di
ricominciare una vita nella quale realizzarsi. Assunto il
nome d Adriano Meis, vive a Roma nella pensione del signor
Anselmo Paleari e "ricomincia" la sua vita. Ma via via si
accorge che la sua nuova situazione è - sia pure in modo
diverso dalla prima - anch'essa limitante, avversa ad una
piena realizzazione della sua personalità: l'essere privo
di identità "burocratica" - di documenti, di stato
anagrafico - impedisce ad Adriano Meis di vivere, cioè di
sposare la giovane figlia di Paleari, Adriana, di
denunziare chi l'ha derubato ecc. Egli può vivere, ma come
un forestiere della vita. Per sbloccare questa situazione
il personaggio simula il suicidio di Adriano Meis (basta
lasciare cappello e bastone e un biglietto con le
generalità sulla spalletta del ponte Margherita) e ritorna
in qualità di Mattia Pascal al paese natio; ma qui trova
che la moglie si è risposata e ha una bambina, che nella
vita del paese egli è ormai un estraneo, "forestiere"
anche qui. Non gli resta che la compagnia di una vecchia
zia e di un prete che ha preso il suo posto di
bibliotecario. E intanto pensa a narrare la sua storia. Ma
lui chi è? è il fu Mattia Pascal.
C'è nelle varie vicende di Mattia Pascal un motivo di
fondo che per così dire le unifica e ne costituisce la
cifra: la sua condizione di forestiero della vita, vale a
dire il suo mancato rapporto con la realtà in una
dimensione di positività, di pienezza, di totalità. Questo
fallimento è constatabile nelle varie fasi della vita di
Mattia, ma nasce da motivazioni, da cause differenti. In
un primo tempo, quando egli ancora vive in famiglia la sua
mancata realizzazione, la coscienza dell'angustia e del
limite nascono dalle istituzioni sociali (il matrimonio,
la famiglia ecc.), In un secondo tempo, quando il
personaggio è diventato Adriano Meis e si apre a un nuovo
senso della vita mercé l'amore di Adriana Paleari, la
mancata realizzazione, lo scacco, la coscienza della
estraneità alla vita derivano paradossalmente dal
rovesciamento della motivazione iniziale, sono dovute al
fatto che Mattia Pascal/Adriano Meis non è inserito - né
inseribile - nelle istituzioni sociali, non può sposare,
non può agire, non è "persona giuridica". La conclusione
implicita nel romanzo risulta - ci sembra - di un
irrimediabile pessimismo, malgrado le valenze giocose e
paradossali frequenti nella narrazione: non ci si salva né
dentro le istituzîoni del vivere associato né fuori, in
nessun modo è realizzabile una condizione di pienezza, di
positività. Non resta quindi che una condizione di
spettatore della vita, un «mettere tra parentesi la vita»
(Debenedetti), guardarla da escluso e tutt'al più
scriverla, non potendola vivere: la vita infatti - è una
famosa asserzione pirandelliana - o la si vive o la si
scrive.
Alla luce di queste (di necessità) rapide considerazioni
risulterà chiaro come con Il fu Mattia Pascal venga creata
da Pirandello una sorta di archetipo che con sfumature e
variazioni avrà larga cittadinanza nella letteratura del
Novecento: un uomo frustrato nel proprio, desiderio di
identità e "straniero" alla vita, incapace o
impossibilitato a determinare la propria vita (nella quale
anzi il ruolo della casualità sarà decisivo),
fondamentalmente inetto alla vita. All'interno della
stagione del decadentismo - pur con tutta la elasticità
che questa catalogazione comporta - con questo romanzo si
apre una fase nuova: ai compiacimenti estetizzanti o
superomistici dei personaggi dannunziani subentrano ora la
consapevolezza dello scacco e dell'irrealizzabile
identità, la coscienza della crisi, alla ferina volontà di
«mordere con avidi denti» i frutti della vita succede ora
una indifferente o tragica rinunzia alla vita.
Atteggiamento, questo, che in Mattia Pascal frequentemente
si risolve in un "vedersi vivere" (come in seguito nel
protagonista della Coscienza di Zeno), in una sorta di
sdoppiamento prodotto da un eccesso di riflessione, di
consapevolezza dello scarto che c'è tra vivere e coscienza
del vivere; Mattia cioè vive già quella scissura, quella
coincidenza degli opposti che nel saggio su L'Umorismo
Pirandello avrebbe definito «sentimento del contrario».
«Mi vidi, in quell'istante, attore di una tragedia che più
buffa non si sarebbe potuta immaginare. Posso dire che da
allora ho fatto il gusto di ridere di tutte le sciagure e
d'ogni mio tormento». Si comprende bene, quindi, perché
L'Umorismo nella sua prima edizione fosse dedicato «Alla
buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario».
Valore emblematico di questo mutato clima, di questo
trapasso da una fase a un'altra del decadentismo potremmo
attribuire - un dato fra tanti altri citabili - alla
rappresentazione di Roma che, in opposizione a quella che
ne aveva dato D'Annunzio, viene fatta nel romanzo, e alle
chiavi di lettura che di essa vengono fornite nei capitolo
X, "Acquasantiera e portacenere". Come ha scritto G.
Mazzacurati, «Dove dieci, veni anni prima intellettuali
del resto tanto divaricati potevano ancora evocare
dall'ombra notturna e dalle rovine segreti vitali,
talismani e presagi di dominio, di risveglio estetico, di
rinascita politica, il protagonista pirandelliano non
coglie che il volto diuturno di un deserto rumoroso quanto
sterile, di un uso funzionale che ha scaricato e distrutto
ogni "valore in sé" (si badi alla analogia
dell'acquasantiera adoperata distrattamente come
portacenere) e il volto notturno della stasi, del vuoto,
ormai spogliato d'ogni senso vitale, d'una monumentalità
congelata».
Ma il segno più evidente di questo trapasso e della novità
è dato dalle tecniche narrative. Anzitutto - e sarà questo
un dato assai frequente nel romanzo "novecentesco" -
l'adozione del protagonista-narratore che parla in prima
persona (con tutte le conseguenze che ciò comporta: cfr.
Profilo, 6.1); sin dall'incipit ci troviamo di fronte ad
un narratore che sottolinea l'enigma della propria
identità («Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io
sapessi» ecc.) e pone subito il tema di fondo del romanzo.
Inoltre: la disarticolazione di un ordine cronologico, di
un prima e di un poi: il tempo - e ciò si verificherà in
tanti altri romanzi novecenteschi - è sottoposto ad un
"trattamento" nuovo, fondato sulle rifrazioni che esso ha
nella coscienza del protagonista narratore che contamina
presente e passato, legge e sente il presente filtrandolo
attraverso il passato. E ancora: la molteplicità delle
modalità narrative; cioè il dilatarsi dei confini della
narratività tradizionale sino ad accogliere ampi inserti
di esposizione teorica - che varie volte danno a Il fu
Mattia Pascal la fisionomia del romanzo-saggio - e ad
ammettere esempi di un «narrare scenico» cioè di un
dialogato che con le implicite o esplicite didascalie
realizza già il genere teatro (capp. IX e XVII). Ce n'è
abbastanza per parlare - è un dato ormai acquisito - di
dissoluzione della narrativa tradizionale.
A questo si accompagnano le particolari qualità dello
stile che, in aperto contrasto col preziosismo
dannunziano, non si fonda sulle calcolate simmetrie o
sulla letterarietà del lessico ma piuttosto su un
andamento concitato e franto, su improvvise spezzature,
sulla mimesi del parlato («né padre, né madre; né come fu
o come non fu»; «dimostrare come qualmente non solo ho
conosciuto mio padre e mia madre»), su calcolate
allocuzioni ai lettori («io sono morto, sì, già due volte,
ma la prima per errore, e la seconda... sentirete», cap.
I).
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