Letteratura italiana: Analisi del Novecento

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Parliamo di

  UMBERTO SABA
Autore recensione
Bruno Maier

 


IL CANZONIERE
 

Nel volume così intitolato, pubblicato per la prima volta a Torino nel 1945, Umberto Saba ha raccolto, opportunamente selezionato, l'intero "corpus" della sua lirica, dalle Poesie dell'adolescenza e giovanili alle Varie. Una seconda edizione (1948) venne completata con l'inclusione della silloge Mediterranee (1947); e ad essa seguì nel 1957 una terza e definitiva edizione (che è quella qui considerata), la quale, "oltre ad alcuni ritocchi di minore entità", reca per la prima volta il sonetto "Da un colle" nella sua forma originale. Restano quindi escluse dal Canzoniere soltanto le raccolte Uccelli - Quasi un racconto ed Epigrafe (Epigrafe - Ultime prose) le quali rappresentano cronologicamente l'estrema stagione artistica dell'autore triestino. La lirica di Saba, pur se nata dall'ispirazione e dall'"istinto" del poeta e direttamente connessa alle diverse occasioni; della sua vita, si è svolta alla luce d'una specifica, consapevole poetica, manifesta, a esempio, nel saggio Quello che resta da fare ai poeti, in alcune "scorciatoie" (nel volume Scorciatoie e raccontini) e in varie asserzioni teoriche contenute in Storia e cronistoria del " Canzoniere". La poesia di Saba si è sviluppata nel tempo in maniera sostanzialmente unitaria e ha raggiunto una sempre maggiore profondità umana e limpidezza di canto (i due termini sono tra loro in relazione diretta), anche se parecchie delle liriche più belle e giustamente famose ("A mia moglie", "La capra", "Trieste", "Città vecchia", "Tre vie", "Via della Pietà", ecc.) sono state composte in età relativamente giovanile. Dal punto di vista psicologico-tematico questa poesia consiste in una progressiva apertura del poeta verso gli uomini e verso le cose del mondo: sicché, se nelle Poesie dell'adolescenza e giovanili Saba appare costantemente, per così dire, sul proscenio col proprio dolore, al quale cerca, petrarchescamente e romanticamente, lenimento e conforto nel canto, ed é "l'uomo che il mondo ha nel suo cuore" e "solo a volte si mescola alle altere / genti", ecco che egli a poco a poco esce dal suo melanconico e solitario soggettivismo e guarda, oltre che in sé, attorno a sé ("Guardo e ascolto: però che in questo è tutta / la mia forza: guardare ed ascoltare") e scopre il mondo esterno e la realtà degli "altri", sentiti con una disposizione di fraterna cordialità: Se la vita all'interno ti pesa / tu la porti al di fuori. / Spalanchi la finestra o scendi tu / tra la folla: vedrai che basta poco / a rallegrarti...". Il mutamento di rotta s'avverte lucidamente nei Versi militari ("Me stesso ritrovai nei miei soldati. / Nacque tra essi la mia Musa schietta"), dai quali balza, con un'umanità prima ignota (o solo saltuariamente prelusa), un autentico poeta nuovo. Da allora, si può dire, tutta la futura carriera poetica di Saba risulta luminosamente divinata e fissata; ed egli la percorrerà interamente, con sicura coerenza. Nasceranno così, nelle raccolte successive (Casa e campagna, Trieste e una donna, La serena disperazione, Poesie scritte durante la guerra, Cose leggere e vaganti, L'amorosa spina, Preludio e canzonette, Autobiografia, I prigioni, Fanciulle, Cuor morituro, L'uomo, Preludio e fughe, Il piccolo Berto, Parole, Ultime cose, 1944, Varie e Mediterranee), le numerose figure, dalla "meravigliosa" Lina (la figura centrale del Canzoniere) alla figlia Linuccia, alla nutrice dal "volto incoronato / di capelli bianchissimi, più duro / delle pietraie del ...Carso", a Paolina, a Chiaretta, a Eleonora, a Erna "strana fanciulla", alla "povera sciantosa", alla "campionessa di nuoto"; dai diversi ragazzi al soldato Zaccaria dal "quore che conquista molti quori" e al marinaio che canta nel "chiaro mattino" "Meglio... dire addio all'amore, / se nell'amor non è felicità"; dal "garzone con la carriola" al "vecchietto" che "il pasto senza vino / ha consumato" e "in sé si è chiuso e al caldo / dolce accogliente" della "Cucina economica" "come nascituro / dentro il grembo materno"; dalle "creature della vita / e del dolore" di "Città vecchia" alle "lavoranti" di "Tre vie", che "scontano la pena / della vita" cucendo "tetre le allegre bandiere"; dai "bersaglieri dalle trombe d'oro" alla "folla... domenicale" che si gode al cinematografo "un poco d'ottimismo americano", al "popolo", dice il poeta, "in cui muoio, onde son nato". Sorgerà il tema di Trieste, sentita come un'aggiuntiva figura dotata, di un'anima, sia essa la "scontrosa / grazia" o la "maschia adolescenza", e quello di altre città, legare all'itinerario biografico e sentimentale dell'autore, come Milano "umana" e "dolorosa", Torino "dalle vie che si prolungano / come squilli", Firenze, Bologna, ecc. Ed entreranno nel cerchio magico della poesia sabiana altri motivi, i più vari, sorprendenti, imprevedibili, dal gioco del calcio ("Cinque poesie per il gioco del calcio") al caffè Tergeste, che "concilia l'italo" lo slavo, / a tarda notte, lungo il suo bigliardo"; dalla "capra dal viso semita", nel cui "uguale belato", fraterno al dolore del poeta, sembra "querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita", alla gallinella che "raspa presso alla porta funesta" della cappella mortuaria e "fa vedere" al poeta "dietro la sua cresta / tutta una fattoria piena di sole...". L'intera esperienza di una vita sarà, insomma, come bruciata o, per usare un termine caro a Saba, "sublimata" in canto, anche se con risultati di differente validità artistica (poiché, "versi assomigliano alle bolle / di sapone: una sale e un'altra no"). In un canto, aggiungiamo, che appunto perché aderisce nel modo più pieno all'accennata esperienza vitale, si esprimere nelle maniere più diverse, e alterna alle forme propriamente liriche quelle narrative e drammatiche, e predilige di volta in volta i toni leggeri e aggraziati della "canzonetta", quelli pacati e discorsivi della "favoletta" e dell'apologo e quelli concisi e rapidi dell'epigramma. Tutta la migliore, più caratteristica poesia del Canzoniere si configura, piuttosto che come solitario monologo, come un protratto dialogo con gli uomini e le cose, con "i sereni animali / che avvicinano a Dio", con il mondo intero, sentito e compreso nei suoi molteplici e sin contraddittori aspetti. Da un simile angolo visuale Saba può essere definito il poeta della bontà e dell'amore della vita, il poeta che attraverso l'espressione delle sue pene e delle sue gioie, della sua "amorosa malinconia" e della sua "querela antica", attraverso la rappresentazione per immagini, improntate a un'eccezionale, primigenia freschezza ("E vedono il terreno oggi i miei occhi / come artista non mai, credo, lo scorse. / Così le bestie lo vedono forse"; "Il cielo è azzurro come il primo cielo / che Dio mandava sulla terra nuova... / Casa e campagna, tutto il mondo, è come / creato or ora..."), del mondo esterno, pronuncia una parola di fraternità, di comprensione, di "dorata letizia", capace di recare in ogni anima "un poco di sereno". Non a caso il poeta che ha sognato di colmare la frattura fra sé, e i suoi simili ("Tutti portiamo della vita il peso, / in ogni luogo, in ogni tempo nati"), che ha sentito come alcunché d'innaturale e di abnorme la chiusura dell'egoismo, la barriera dell'odio e gli orrori della guerra ("Tutto mi portò via il fascista abbietto / - anche la tomba - ed il tedesco lurco"), che ha desiderato di "essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni" e ha ravvisato il punto d'arrivo dell'esistenza nel poter essere solamente "fra gli umani, / io non so più dolce cosa", si legge nella bellissima "Sesta fuga") è quello che più ha esaltato, in termini di alta poesia e al di fuori di ogni insidiosa ambizione predicatoria, apostolica e polemica, gli eterni valori dell'"umanità"; e la sua voce è la più "umana", del nostro odierno Parnaso. Al progressivo approfondimento e illimpidimento dell'umanità del poeta sul piano psicologico corrisponde sul piano stilistico, un parallelo processo di liberazione dalla "letterarietà", nell'intento di conseguire una poesia sempre più semplice e intensa, chiara, e concreta, originale, aliena da prestiti e da reminiscenze di altri autori, e di giungere a un più stretto rapporto fra la dittazione interiore e l'espressione, fra le cadenze del cuore e il ritmo della parola e del linguaggio. Così, se il giovane Saba nasce e si forma sotto i segni del binomio Petrarca-Leopardi e nello sforzo di riallacciarsi al filo d'oro della nostra tradizione letteraria risente di Dante, della melica settecentesca, di Parini, Foscolo, Carducci, Pascoli e D'Annunzio, a poco a poco si assiste al riassorbimento di queste esperienze, al loro dissolversi di fronte al prepotente urgere dell'ispirazione dell'A., volto soltanto a guardare e a scavare dentro di sé ("io... ho messo lo sguardo fino in fondo / al mio cuore, al mio triste cuore umano"; "Scavar devo / profondo come chi cerca un tesoro") e a sollevare e redimere la vita in poesia. Infatti, a partire dai Versi militari, è difficile collegare Saba ad altri autori e ad altri movimenti letterari del secolo: l'esperienza crepuscolare non lascia in lui alcuna traccia, e men che meno quella futurista, del resto da lui cosi abissalmente lontana; e neppure si può dire che influenzi in maniera sensibile lo svolgersi della sua lirica la permanenza in Toscana negli anni della Voce (v. O.) ("A Giovanni Papini, alla famiglia / che fu poi della Voce, io appena o mai / non piacqui. Ero fra lor di un'altra specie"). Inoltre egli rimase sostanzialmente estraneo al movimento ermetico, la cui poetica pareva essere l'antitesi di quella da lui asserita, tutta volta alla "chiarezza", per quanto sia lecito supporre che il concetto della "poesia pura" allora vigente e imperniato sulla dignità assoluta della parola, sulla elettezza ed essenzialità formale, abbia agito beneticamente sull'opera di Saba e, in particolare, sulle raccolte Parole e Ultime cose, ove figurano le sue liriche "più pure", quelle in cui meglio risaltano i valori espressivi ("Parole / dove il cuore dell'uomo si specchiava / nudo e sorpreso alle origini", leggiamo nel componimento iniziale di Parole). Ma non va dimenticato che verso una maggiore limpidità formale (dovuta al più strenuo e profondo scavo psicologico) si veniva spontaneamente orientando la lirica sabiana ("Sul tardi / l'aria si affina ed i passi / si fanno leggeri"): sicché, se incontro con l'ermetismo ci fu, esso venne a persuadere ulteriormente il poeta della bontà e della giustezza della via seguita e a riconfermare la sua fedeltà alla propria naturale, rettilinea parabola artistica. Non diversamente è da prospettare la relazione fra la lirica di Saba e quella del dopoguerra che si è voluta definire "neorealistica": diremo, dunque, che un autore come il nostro, che ha sempre creduto nelle "cose" e che come nessun altro ci ha dato una poesia "concreta" e intimamente connessa alla vita, non poteva non essere un poeta "realistico", e si potrebbe aggiungere, se il termine non suonasse un po'equivoco, "popolare". È, anzi, possibile affermare che il "neorealismo" ha in Saba, per più riguardi, un legittimo precursore. In verità, la lirica di Saba è ormai universalmente ritenuta qualcosa che conta per se stessa e non ha più bisogno di agganciare la sua risonanza al malfido carro d'una contingente poetica; e non è fuori luogo osservare che il riconoscimento dell'elevatezza umana e artistica, della "classicità" della poesia di Saba, della profondità del suo messaggio, è una delle più importanti scoperte critiche di questa nostra epoca inquieta e travagliata, ma pur ancora capace di commuoversi e di esaltarsi di fronte a una genuina voce di poeta.

 

2003 - Luigi De Bellis