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Angelo
Conti, nato a Roma nel 1860 e morto a Capodimonte (Napoli)
nel 1930, scrittore, critico d'arte e studioso di storia
delle religioni e di misticismo, «fu il più autentico
rappresentante in sede critica di quel movimento
estetico-mistico, che, nato sotto il segno di Walter
Pater, doveva trovare il suo artista nel D'Annunzio (il
quale ci ha lasciato di lui un immaginifico ritratto nel
Daniele Glauro di Fuoco)». Tra le sue opere saggistiche
ricordiamo: Giorgione (1894), La beata riva (1900), Sul
fiume del tempo (1907).
L'annullamento dell'anima singola nell'anima universale
(secondo un modello derivato dalla mistica) durante la
contemplazione estetica è secondo Angelo Conti il processo
che conduce al pieno e limpido rispecchiamento (l'occhio
dell'artista è «l'occhio limpido in cui le cose si
riflettono senza velo»), e anzi ad un vero e proprio
disvelamento della segreta essenza, delle segrete
«aspirazioni» della natura, altrimenti incomunicabili e
incomprensibili alla natura stessa (« A traverso le
compagini di tutte le vite inferiori alla vita geniale, la
natura non può esprimere ciò che costituisce la più pura
essenza delle sue aspirazioni. Sin che non entri in iscena
il genio, la natura rimane un mistero per sé medesima»).
L'azione, del resto puramente contemplativa, del genio è
così paragonata ad una luce quasi soprannaturale che,
dietro il «velo d'ombra» che copre le apparenze normali,
illumina il fondo segreto del reale. Non si potrebbe
chiedere alla riflessione decadente una più precisa
definizione della funzione conoscitiva (intuitiva,
irrazionale, imparentata col misticismo) attribuita
all'arte e alla poesia.
LA BEATA
RIVA
Sotto
questo titolo, Angelo Conti scrisse nel 1900 il proclama
dell'estetismo italiano. L'arte è considerata come "la
riva lungo la quale scorre il fiume della dimenticanza";
ben lungi dal proporsi un intento pratico, essa
rappresenta un morire del poeta a se stesso, un mirabile
oblio delle leggi della comune conoscenza, per cogliere
una realtà più profonda, che si chiama "Idea". Ma questa
si rivela solo all'occhio innocente, per un moto e una
forza tutta istintiva, che alla cultura nulla deve e anzi
tanto più vale quanto più l'uomo riesce a riportarsi alla
condizione di pura sensitività (che è esplicitamente
spiegata come pura animalità). Solo con tale "ritorno alla
natura" l'animo, liberato dalla razionalità, può attingere
il momento sintetico dell'essere e vedere e creare opere
perfette. Tale processo, che inizialmente si accorda con
la concezione materialistica, viene arbitrariamente
elevato su un altro piano di estremo spiritualismo, fuori
delle naturali leggi dell'estetica del Rinascimento, a cui
per qualche parte il Conti si ispira: l'animo del poeta
deve trovarsi nella condizione di chi adora; la sua voce
deve avere il soffio e l'accento della preghiera. Il
misticismo contiano però, anziché presentarsi come una
serena "ebrietas" in cui tutte le facoltà dell'uomo
vibrano armoniosamente, è come adombrato da un dolore vago
e senza motivo; e a questo si deve la sua nobiltà e il suo
nuovo carattere storico, diverso da quello del Cinquecento
come pure da quello dannunziano. L'opera d'arte resta in
certo modo legata alla natura materiale portando avanti,
verso una forma più essenziale e perfetta, un conato di
perfezione latente, ma già accennatosi nella natura: come
per un mistico superamento - forse anch'esso in relazione
con le teorie darwiniane - delle forme inferiori e impure
in forme più alte, fino alla definitiva, data dall'arte.
In questo libro si traccia pure il compito nuovo della
critica, la quale deve ridursi umilmente a "una preghiera
che l'uomo rivolge all'arte", espressa pur essa con
immagini che propaghino, senza alterarlo, il ritmo
dell'opera d'arte nell'animo del lettore.
SUL FIUME DEL TEMPO
Quest'opera
risponde al tentativo di screditare in Italia la cultura
in generale, e particolarmente quella storico-erudita
dell'ultimo Ottocento. Il problema estetico è posto su
pure premesse psicologiche: cultura, biografia, vita
storica e sociale non influiscono e nulla determinano
nell'opera d'arte, la quale nasce con la più autonoma
spontaneità nell'animo dell'artista. Invece vale il
contatto con altre opere d'arte, coi capolavori già fatti,
i quali offrono un eccitamento o una suggestione; o vale
il paesaggio naturale, il quale comincia quel canto,
accenna quella frase che poi l'arte, con ampi accordi e
delicate e profonde strumentazioni, svolge e finisce
trionfalmente. L'arte dunque prolunga, non crea; per
essere compresa deve essere ricondotta alla natura sia a
quella "storica", entro cui ebbe nascita il capolavoro;
sia a quell'altra, immaginaria e arbitraria, che
nell'anima del critico si forma. Né il critico deve
"comprendere", ma solo "sentire": sentire la vita,
confusamente, ineffabilmente, andando oltre la stessa
opera creata, oltre il segno stesso dell'artista. Siamo
dinanzi a un misticismo panestetico, nel quale nulla
rimane obbiettivato in un suo valore particolare: né
l'opera d'arte, né l'artista, né il suo rapinoso
interprete; e tale curioso atteggiamento deriva dall'animo
del Conti commosso e tendente a forme poetiche dinanzi al
paesaggio italiano e alle opere d'arte, ch'egli ricerca
nelle varie regioni, scambiando dall'uno alle altre, e
viceversa, impressioni, ragionamenti di critica, ricordi.
L'opera risente di quell'ambiente d'eccezione in cui si
muovono gli artisti e gli esteti nei romanzi dannunziani;
e la pretesa di dare elementi a un'estetica nuova (v.
Beata riva) che, per altre vie, dovrebbe coincidere con
quella del Croce, non regge: poiché il vago spiritualismo
da cui è mossa non può andar confuso con l'idealismo
storico del filosofo.
Giulio Marzot |