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Corruzione al palazzo di giustizia |
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Dramma in tre atti scritto nel 1944 e
rappresentato per la prima volta a Roma nel 1949. È
considerato generalmente uno dei più riusciti lavori di Betti
ed è certo quello che ebbe i più vasti consensi di critica
e di pubblico. Nella stanza severa di un solenne palazzo
di giustizia, il consigliere Erzi sta conducendo una
terribile inchiesta. Il cadavere di Ludvi-Pol, un losco e
potente avventuriero, trovato tra le mura del palazzo
stesso; l'incendio d'una casa e la conseguente morte d'una
donna allorché venne ordinata una perquisizione per il
sequestro di documenti compromettenti; e soprattutto il
putridume e la corruzione dilaganti che sembrano inquinare
la città intera: tutto spinge a cercare "la pustola rosea"
che è all'origine del marcio. Il sospetto si addensa sulla
sezione Grandi Cause, "un piccolo, solitario e malfermo
scoglio, come dice uno dei giudici, sul quale piombano da
tutte le parti ondate immense, spaventose; e cioè
interessi implacabili, ricchezze sterminate, blocchi
ferrei manovrati da uomini tremendi". Di fronte alla
pesantissima accusa si ingaggia da parte degli indiziati
una lotta subdola, insinuante, sottile. E una atmosfera
angosciata e allucinante si crea intorno all'inquisitore
(non rara nel teatro bettiano e che ha fatto pensare già a
suggestioni e a richiami kafkiani). I sospetti vengono
prima fatti cadere sul presidente Vanan che, stanco e
debole, è sul punto di dichiararsi colpevole; ma il giuoco
diabolico di audacia e di sottigliezze rivela altri tipi:
fra gli altri, Croz, vecchio e malato che aspira a
diventare presidente; Cust, suo contendente che,
servendosi d'una lucidissima arma dialettica e di un
ipocrita rigorismo morale, aggroviglia e dipana i
sospetti. Sarà lui, infatti, a svelare a Elena la giovane
figlia del presidente Vanan, fragilità e vizi del padre.
Sconvolta, Elena, che ha sempre creduto nella dirittura
paterna, si getta nella tromba dell'ascensore. La lotta
alla fine si restringe tra Cust e Croz. Morendo per un
male improvviso Croz, che intanto era riuscito ad avere le
prove della colpevolezza di Cust, si vendica a suo modo,
accusa se stesso e indica in Cust il successore di Vanan,
ormai quasi svanito di mente. Cust è solo con la sua
vittoria, ma anche con il suo rimorso implacabile. Sullo
sfondo dell'ultima scena è una simbolica, lunghissima
scala; Cust s'avvia verso di essa; l'ascenderà per
presentarsi davanti all'Alto Revisore. Quasi svincolata
dalle vicende, l'angoscia particolare di questo fortissimo
dramma è affidata alla vibrazione intima dei personaggi il
cui tormento esistenziale si libera qui da molti elementi
simbolici, che aduggiano molto il teatro bettiano, e più
pienamente aderisce a un commosso e tragico senso di pena.
A un esame superficiale quest'opera potrebbe apparire un
"giallo" d'alta classe. Ma in realtà a Betti non
interessano i fatti quanto l'atmosfera che li avvolge e
quasi li sostiene. La colpa che si affanna a liberarsi
attraverso il tormento non inceppa l'espressione, ma
l'affina, la rende sottile e lucida, interiorizzandola
drammaticamente. E molti motivi della problematica morale,
che è alla base di tanto teatro del dopoguerra, sono qui
raccolti ed espressi in un linguaggio teatrale che, per
l'implacabilità inquisitoriale e la stringatezza
dimostrativa, assimila la lezione dei migliori autori
contemporanei.
Alfredo Barbina
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