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Giuseppe Ungaretti:
Sentimento
del tempo |
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Dopo l'esperienza rivoluzionaria
dell'Allegria, dopo la ricerca di una parola nuda, pura
ed essenziale, che si levi dal silenzio, come la parola
dell'uomo originario, Ungaretti lentamente riscopre le
virtualità discorsive e melodiche del linguaggio poetico
e il fascino della tradizione. Si tratta di una
regressione o di un progresso? I critici, concordi nel
riconoscere la straordinaria importanza storica
dell'Allegria, si dividono nella valutazione delle
successive fasi della lirica ungarettiana, di cui
forniamo qui una campionatura minima nell'ambito di quei
testi che, per linguaggio e ansia metafisica, poterono
costituire fonte di suggestione per gli ermetici.
L'isola, o della poesia
Testo per sua natura vago e polisenso, potenzialmente
ricco di implicazioni metafisiche, L'isola potrebbe
addirittura suggerire un'interpretazione in chiave di
documento di poetica (come abbiamo visto, la lirica
simbolista, cui questo testo deve essere in definitiva
ricondotto, parla sovente dell'atto stesso del fare
poesia e delle tensioni a questo connesse). Per
intenderlo in questo modo bisogna rifarsi ad un testo di
due anni prima, Sirene, e all'autocommento di Ungaretti.
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Funesto spirito
Che accendi e turbi amore
Affine io torni senza requie all'alto
Con impazienza le apparenze muti,
E già, prima ch'io giunga a qualche meta,
Non ancora deluso
M'avvicini ad altro sogno.
Uguale a un mare che irrequieto e blando
Da lunge porga e celi
Un'ísola fatale,
Con varietà d'inganni
Accompagni chi non spera, a morte. |
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A proposito di «funesto spirito» e poi di tutto il
testo, così scrive Ungaretti: « È l'ispirazione, che è
sempre ambigua, che in sé contiene uno stimolo e una
verità illusoria, l'inquietudine di cui si diceva prima;
è la musa sotto forma di sirena, e nella poesia è
presente, appunto, l'isola fatale, l'isola delle sirene
incontrata da Ulisse nel suo viaggio». L'ispirazione è
qui vista nei suoi connotati negativi, di inquietudine
che ancora non si realizza in testo. L'ispirazione, che
innamora e costringe il poeta a inseguirla, lo invita al
periglioso viaggio per mare (all'alto, latinismo,
significa «in alto mare», come annota il Contini) e
prima che egli giunga a qualche approdo concreto e reale
gli porge un'illusione (funesta, perché cela la morte),
l'illusione di un'isola mitica cui approdare.
Sirene, testo di per sé tutt'altro che privo di lati
oscuri, fornisce però una traccia per l'interpretazione
dell'altro, L'isola. Qui si parla di un approdo ad
un'isola i cui connotati mitici e metafisici sono una
palese legittimazione dell'accostamento all'«isola
fatale» di Sirene. Quest'isola è poi un concentrato di
topoi, di luoghi letterari (tematici e stilistici) della
tradizione classica (l'Arcadia, le ninfe e i pastori,
ecc.) e della più recente tradizione simbolista: dalla
metafisica evanescenza del paesaggio allo stile
oscuramente allusivo, dal segno impalpabile rivelatore
di una presenza - qui un mallarmeano frullo d'ali, in
Valéry, ad esempio, il suono dei passi - all'immaginario
irrealistico, metaforico e sinestetico (stridulo
batticuore, liscio tepore, erano un vetro levigato da
fioca febbre). Se ne può forse arguire che il misterioso
visitatore sia il viaggiatore che si è messo per mare
nel componimento precedente, il poeta cioè sospinto
dall'ispirazione, che trova ora un approdo (già
prefigurato del resto in Sirene) nel territorio del mito
classico (che riecheggerà in tanti testi del Sentimento
del tempo) e più in generale della tradizione sia remota
che recente. La larva-ninfa potrebbe essere, come la
sirena, non solo un residuo inerte del classicismo, ma
una simbolica incarnazione della poesia. Espressioni
come «languiva e rifioriva» e «da simulacro a fiamma
vera / errando», per cui si è sospettato un sovrasenso
simbolico, potrebbero allora proprio alludere
all'ispirazione e alla poesia, che trova o crede di
trovare, dopo il «languore» e un'incertezza di fondo
(incertezza di sé, dei propri modi e delle proprie
forme), una nuova strada e un nuovo vigore («fiamma
vera»).
Una dimensione metafisica. Naturalmente, questa non
esclude altre interpretazioni, che identifichino ad
esempio nel 'visitatore' il naufrago dell'Allegria
(Allegria di naufragi: «E subito riprende / il viaggio /
come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di
mare») e cioè l'uomo in prospettiva esistenziale, che
trova un approdo metafisico (stabile?), e nella mitica
isola fuori dal tempo identifichino appunto la
dimensione metafisica (le connotazioni letterarie
varrebbero solo come segnale di irrealtà, di
metafisicità).
Diverso per il senso, ma affine per la tensione
metafisica è Variazioni su nulla, per intendere il quale
nella sua estrema rarefazione, che può postulare una
derivazione barocca (Ungaretti sta traducendo Gòngora),
si consideri la nota di autocommento di Ungaretti: «Il
tema è la durata terrena oltre la singolarità delle
persone. Null'altro se non un disincarnato orologio che,
solo, nel vuoto, prosegua a sgocciolare i minuti». La
mano che volta la clessidra, come la facoltà uditiva che
postula un'esistenza indipendente dall'uomo, nel vuoto,
saranno dunque mano e udito sovrumani, al di fuori dal
tempo e dallo spazio.
Una svolta
Indipendentemente dall'interpretazione dell'Isola
ungarettiana fornita, di per sé il linguaggio, lo stile
(da notare le inversioni), l'oscurità, il simbolismo dei
due componimenti riprodotti testimoniano il mutamento di
direzione che Ungaretti gradualmente viene attuando dopo
l'Allegria e che poi persegue in varie forme, anche
assai diverse da queste (l'ultimo Ungaretti, ad esempio,
riconquistata la fede, scriverà poesie palesemente
religiose). Le caratteristiche tematiche e stilistiche
dei componimenti prescelti, proprio perché si rifanno
alla tradizione simbolista, costituiscono una
suggestione immediata per la poesia ermetica, che a
questo secondo Ungaretti - più che a quello
dell'Allegria - guarderanno come a un possibile, e
vicino, padre spirituale.
Su questa svolta ascoltiamo la testimonianza di
Ungaretti stesso:
Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra
- e non mancavano circostanze a farmi premura - erano
tutte tese a ritrovare un ordine, un ordine anche,
essendo il mio mestiere quello della poesia, nel campo
dove per vocazione mi trovo più direttamente
compromesso. In quegli anni, non c'era chi non negasse
che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno,
una poesia in versi. Non esisteva un periodico, nemmeno
il meglio intenzionato, che non temesse ospitandola, di
disonorarsi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La
memoria a me pareva, invece, una àncora di salvezza: io
rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non
cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello
del Petrarca, o quello di Guittone, o quello del Tasso,
o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo
in loro il canto. Non era l'endecasillabo del tale, non
il novenario, non il settenario del talaltro che
cercavo: era l'endecasillabo, era il novenario, era il
settenario, era il canto italiano, era il canto della
lingua italiana che cercavo nella sua costanza
attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e
così diverse di timbro e così gelose della propria
novità e così singolari ciascuna nell'esprimere pensieri
e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo
sentire in armonia col battito del cuore dei miei
maggiori di una terra disperatamente amata. Nacquero
così, dal ' 19 al '25, Le Stagiona; La fine di Crono,
Sirene, Inno alla Morte, e altre poesie nelle quali,
aiutandomi quanto più potevo coll'orecchio, e coll'anima,
cercai di accordare in chiave d'oggi un antico strumento
musicale che, reso così di nuovo a noi familiare, hanno
in seguito, bene o male, adottato tutti.
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