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Diario
romano |
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Opera
postuma riordinata da G.A. Cibotto e Sandro De Feo e
pubblicata a Milano nel 1961. È il frutto del lavoro di
collaboratore che B. svolse tra il 1947 e il 1954, prima
sulle colonne di "Tempo Illustrato" e poi su quelle del
"Corriere della Sera". E nonostante la sua natura
occasionale, costituisce senza dubbio uno dei libri più
stimolanti dello scrittore catanese e in pari tempo una
delle testimonianze più singolari e sofferte che noi
possediamo intorno agli anni del secondo dopoguerra. È
difficile indicarne tutti i vari filoni o dare un
resoconto sia pure approssimativo di queste pagine nate
dalla spinta di una curiosità sempre tesa, che mette a
fuoco la vita politica e la vita morale, la vita
letteraria e il costume, che esplode nell'ironia, nel
sarcasmo, nel rifiuto oppure si fa meditazione e
discussione dei temi ideologici dominanti in quegli anni
di crisi e di ansiosa ripresa democratica, di cui Brancati
fu testimone, ma anche attore partecipe e impegnato,
pronto a lamentare che "nella continua fatica di difendere
la poesia, la filosofia, l'arte dalle prepotenze della
politica, noi c'ingolfiamo nelle questioni politiche,
leggiamo libri di politica, vi prendiamo perfino gusto, e
perdiamo quello per cui stiamo lottando: il gusto della
poesia, dell'arte, della filosofia", ma incapace di
staccare gli occhi dal quadrante della politica e di
rinunziare a intervenire, a giudicare, ad appuntare le
frecce della sua polemica contro tutto ciò che sa di
nostalgie fasciste di idoleggiamento della tirannide, di
improvvisazione, di incultura, di compromesso, di
ignoranza delle responsabilità che il nuovo clima di
libertà comporta. "So di giudicare la politica da
moralista, cioè secondo regole che non sono sue", egli
ammette. Ma aggiunge subito: "È uno sbaglio del quale sono
felice, perché le regole che applico alla politica sono
quelle di un'attività che di gran lunga la sorpassa". Ed è
proprio in tale direzione che questo razionalista dal
talento di moralista, questo lucido innamorato dei valori
dell'intelligenza e della libertà trova anche
letterariamente le sue misure migliori in una prosa
avvivata e sorretta ovunque da un gusto quasi
settecentesco della massima, della frase icastica, della
sentenza pregnante ed epigrafica. Ma si darebbe un'idea
unilaterale del volume se ci restringesse alla sola
tematica politica, che pure ne è la spina dorsale e fa da
sottofondo a tutto il resto. Il costume è un altro
"leit-motiv" del Diario romano: corrono qui, visti a
occhio nudo, uomini e cose della Roma e dell'Italia
intorno al 1950, personaggi illustri e meno illustri e gli
umori brancatiani scattano in aneddoti ironici o satirici
e in bozzetti estrosi, quasi materia condensata brevemente
in attesa d'esser rifusa in un futuro lavoro narrativo. E
si sente che queste pagine sono contemporanee al Bell'Antonio,
con in più qualcosa di appassionato e di avidamente
partecipe che nel romanzo si allenta ed evade nella
trovata e nella comicità. E va infine segnalato, quasi a
titolo di contrasto, il filone catanese del Diario romano:
non solo perché l'animo di Brancati
è sempre attento ai tipi, agli eventi, alle suggestioni
della sua provincia, ma perché esiste, al centro
dell'opera, una serie di pagine di pieno abbandono lirico,
dove prevalgono, in modi secchi ed esemplari, in
un'icastica nitidezza d'accenti, il sentimento del
paesaggio siciliano e l'amore per le cose e i luoghi
nativi. Il Diario romano è perciò un libro che può esser
letto in più d'una chiave: per ritrovarvi i temi
d'ispirazione del Brancati
narratore, oppure lasciandosi attirare dal complesso
rapporto tra l'uomo Brancati e la società, il mondo
spirituale e morale, il costume del suo tempo; o infine
come un'opera a sé, che ci restituisce, attraverso il
filtro d'un complesso temperamento d'artista, il senso di
un'età particolarmente ricca e problematica della nostra
recente storia.
Mario Pomilio
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