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La
regina e gli insorti |
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Dramma in quattro atti di Ugo Betti
(1892-1953), rappresentato a Roma, al teatro Eliseo, il 5
gennaio 1951, e pubblicato nello stesso anno a Milano nel
n. 61 di "Sipario". Ha per protagonista una prostituta,
Argia, che nel clima di una rivoluzione e delle sue
tragiche conseguenze (stragi, processi sommari, delazioni,
lotte per il potere) ritrova la sua dignità di donna
riscattando il proprio passato e scegliendo
consapevolmente il martirio. L'azione si svolge in un
paese immaginario dove l'intera famiglia reale è stata
sterminata dagli insorti, a eccezione della regina
Elisabetta che è riuscita a fuggire. Il nuovo governo si
sforza di catturarla con ogni mezzo perché, col passare
del tempo, la sua figura viene mitizzata dal popolo in
modo sempre più preoccupante. È a questo punto che al
posto di blocco di una località di confine giunge un
gruppo di profughi, del quale fa parte anche Argia che,
venuta alla ricerca del suo ex-amante Raim, ora al
servizio del regime in carica, riconosce in una contadina
terrorizzata e cenciosa la fuggiasca Elisabetta. D'accordo
con Raim, ricatta la povera creatura, si fa dare da lei
gli ultimi gioielli e un elenco delle persone che l'hanno
aiutata ma al momento di indirizzarla verso il luogo dove
il suo complice si è appostato con un mitra, ne ha
compassione e l'aiuta a mettersi in salvo. Ma la
prostituta ha mostrato troppa sicurezza di sé, e il suo
atteggiamento ha colpito il commissario Amos che
incomincia a crederla la regina. Sulle prime Argia trova
la situazione quasi divertente e reagisce con beffarda
spavalderia, ma quando le accuse incominciano a farsi
pressanti, si accorge che le è impossibile chiarire
l'equivoco: Elisabetta, tratta in arresto, ha posto fine
al timore di essere identificata ingerendo un veleno
mortale e Raim è stato ucciso dai poliziotti mentre
cercava di fuggire. Non le resta dunque che accettare
pienamente il personaggio che le è stato imposto:
affermerà con orgoglio di essere lei la regina, rifiuterà
con disdegno qualsiasi compromesso, affronterà con
coraggio tutte le conseguenze di questa scelta sino alla
fucilazione. Il disfacimento morale e la crudeltà del
mondo, temi consueti del teatro bettiano, vengono così
superati da un appello alla dignità dell'individuo. Ma
alle nobili ambizioni tragiche dell'opera si
contrappongono una scrittura spesso ridondante e il
ricorso a espedienti teatrali a volte troppo scoperti.
Alfredo Barbina
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