Letteratura italiana: Analisi del Novecento

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  Letteratura italiana del Novecento
 

 


Aldo Palazzechi
 

Nato a Firenze nel 1885, Palazzeschi (anagraficamente Aldo Gìurlani) compì studi di ragioneria, frequentò una scuola dì recitazione e fece per qualche tempo l'attore nella compagnia di Lida Borelli, Fu compagno di strada dei futuristi (scrisse anche su «Lacerba» ), ma se ne staccò presto per il loro interventismo e nazionalismo. Visse gran parte della sua vita a Firenze - con brevi soggiorni a Venezia e a Parigi - e a Roma, dove morì nel 1974.

Nel panorama del Novecento italiano la sua produzione, che occupa più di un cinquantennio, è di notevole importanza sia nell'ambito della poesia (L'incendiario, 1910; Cuor mio, 1968; Via delle cento stelle, 1972) che in quello della narrativa (oltre II codice di Perelà, i racconti di Stampe dell'Ottocento, 1932; II palio dei buffi, 1937; II buffo integrale, 1966; i romanzi Le sorelle Materassi, 1934, Roma, 1953, e II doge, 1967).

Il codice di Perelà, che più che romanzo si potrebbe definire una sorta di "favola allegorica" o "favola surreale", fu pubblicato nelle edizioni futuriste di «Poesia» nel 1911, col sottotitolo di «romanzo futurista». Fu ripubblicato con qualche variante e come Perelà uomo di fumo nel 1954 da Vallecchi. «La vicenda è estremamente lineare: il protagonista giunge in un'anonima città dove, come più tardi nel Doge, l'ambientazione mischia gli elementi realistici della cronaca agli elementi eterni delle favole. Per le sue inconsuete caratteristiche psicofisiche, Perelà viene accolto nella reggia, nella quale gli sono subito presentati i notabili del paese e le dame di corte. Gli viene affidata, compito supremo, la stesura del Codice. Ma la morte di un servitore, Alloro, lo perde: l'uomo di fumo viene condannato alla reclusione a vita. Ma come il Cristo, Perelà fugge dal suo sepolcro (il carcere) e s'invola nel cielo».

LE OPERE

IL PALIO DEI BUFFI

comprende diciotto racconti, riproposti nel 1957 nel volume Tutte le novelle insieme ad altre due raccolte Il Re bello (1921) e Bestie del 900 (1952) e altri pezzi apparsi su giornali e riviste. Una ulteriore edizione definitiva delle novelle è del 1975, comprensiva anche di un quarto volume: Il buffo integrale (1966). Di questa amplissima produzione narrativa all'insegna del Boccaccio novellatore, per P. "divino maestro d'arte e di vita", Il palio dei buffi comprende le novelle più riuscite e lo stesso titolo è quello che in generale "meglio le scopre e le accentua": infatti, spiega l'A. "buffi sono tutti coloro che per qualche caratteristica, naturale divergenza e di varia natura, si dibattono in un disagio fra la generale comunità umana; disagio che assume a un tempo aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza; ragione per cui questo libro forma una commedia tragicomica nella quale i 'buffi'vengono portati alla sbarra". Queste storie scritte su moduli narrativi tradizionali, che si richiamano in parte al bozzettismo toscano di fine '800, si distaccano dal realismo, per giungere a immaginazioni ossessive e deformate, a un'invenzione, che, come ha scritto A. Borlenghi "quanto più fumistica e sospesa, più stringe e sollecita per la profondità cui ha attinto... a un senso inesplorato della vita". I temi, nella costruzione del racconto di poche pagine o più disteso, nascono dalla quotidianità: in primo luogo il grottesco, appunto, come per Il gobbo dove si dice dei poveretti offesi dalla natura, che però "infaticabile equilibrista" li dota dell'arguzia e della malizia per ridere delle persone dritte "più assai di quanto queste non si ridano" di essi; o in Gedeone e la sua Stella, novella che racconta di un matrimonio felice anche se tra un uomo tenero, romantico, languidissimo e una donna severa e spiccia che lo disprezza e lo insulta. La vocazione al riso di P. affiora nel surreale La gloria che dice del meticoloso e chiuso Signor Scipione, che faceva quadri con ali di mosche sulla cui incomprensibile provenienza si tortura nella curiosità la serva Aleppina, anche dopo la morte e il successo mondano e di critica decretato all'artista. In questo racconto, come in Il dono, risalta il naturalismo istintivo di P., l'aderenza alla vita, quella "grazia", come la chiamò Contini, del prosatore che non delinea solo una macchietta, ma è attento anche alla psicologia dei personaggi minori: così c'è il padrone, incallito avaro, che scopre da vecchio la felicità di ricevere doni, dolci, frutta, pur da lui stesso ordinati e la serva, che più che per lo sciupio dopo tanto risicare, si offende dell'essere esclusa dalla spiegazione dell'improvvisa trasformazione dell'avaro. P. si appassiona alla sua materia (fino a passare in primo piano con affettuose digressioni con il lettore) ed è una realtà sociale viva e intera che appare al di là dell'aneddoto; Il punto nero, per esempio, non è solo la storia di un momento misterioso nella vita - come in quella di ogni uomo esiste - di un irreprensibile e specchiato impiegato, ma il quadro di una società piccolo borghese, che ai margini di ogni vero valore, si agita, si rode e si estenua nei passaggi obbligati del galateo, nel piatto convenzionalismo, in una meccanica trafila quotidiana. La tristezza di situazioni senza scampo, la sofferenza interiore di uomini incolpevoli trovano ugualmente l'intonazione giusta: una tenera malinconia pervade racconti come Vita, storia di un ragazzo, arrivato ventenne a Parigi, per diventare pittore e poi deluso dall'arte e dagli artisti: scartato e in fuga da essi, ha, per poco, il dono di una compagna, che, pur con le sue stesse frustrazioni e sconfitte, gli sa rendere la vita leggera e felice. Rimasto solo davanti alla morte di lei, quasi cieco, vecchio, senza denaro, sa ritornare, davanti a un vaso di gerani, comprati miracolosamente per poco, padrone della vita.
Massimiliana Mignone


POESIE

Raccolta pubblicata nel 1930. Operando una feconda sintesi tra crepuscolarismo e futurismo e alternando agli atteggiamenti nostalgici uno spirito corrosivo e grottesco, P. ci offre, nell'arco di una produzione poetica che va dal 1904 al 1968, un ritratto scanzonato e nello stesso tempo accorato di un'ispirazione che ha trovato, come l'autore stesso dichiara in una sua pagina autobiografica, nell'allegria un efficace esorcismo ai mali della vita. Reagendo in profondità alla bellezza del dannunzianesimo e al dolore languido del Pascoli, con un costante atteggiamento polemico e critico nei confronti dei luoghi comuni di una tradizione ormai esangue, Palazzeschi avverte la magia del simbolismo e l'ambiguo significato delle piccole cose proponendo, con un'operazione d'avanguardia, una lingua teatrale e onomatopeica anticonvenzionale. Conventi e cipressi, vetrate oscure, lanterne e ritratti sono fra gli oggetti che appartengono più intimamente alla poesia crepuscolare, in una vena nostalgica e di malinconico languore. Innumerevoli simboli ricorrono in queste poesie che risentono, con una complessa varietà di forme, dei diversi periodi tematici e stilistici attraversati dall'autore: la suora centenaria del "Convento di Nazarene", i quattro uomini di "Oro, Doro, Odoro" (tipico della poesia di Palazzeschi è il gioco delle iterazioni foniche e lessicali) sembrano riflettere il mistero della vita, mentre le tre vecchie di "Ara, Mara, Amara", probabilmente le tre Parche, decidono il destino giocando ai dadi, secondo la logica assurda e imperscrutabile dell'esistenza umana. L'ironia del poeta si appunta sulle beghine, descritte con feroce sarcasmo mentre, avvolte nelle loro nere mantiglie, come cortigiane di una reggia personale si aggirano nelle chiese, con il loro Fardello di amori svaniti o mai conosciuti. Venato di romanticismo e il "Grillo del Ponte Vecchio" che tutte le sere accompagna col suo canto il ritorno a casa dello scrittore finché una sera d'estate, dopo una vana attesa, il ponte resta muto e deserto. Ville, castelli e palazzi appaiono nelle Poesie, con principi, regine e dame misteriose che scendono da cocchi dorati, simboli di un luogo immaginario da dove (forse) è possibile contemplare la vita con sereno distacco. La vita, nella sua assurdità, è un teatro; questa è l'asserzione implicita sottesa alla poesia di P.; il buffo, il grottesco, il comico servono a evadere da uno stato di grigiore e amarezza, per creare, col gioco ambiguo delle parole e delle immagini, uno spazio magico, colorato, libero: "Io metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell'anima mia".
Sergio Strada


LE SORELLE MATERASSI

Romanzo edito a Firenze nel 1934. Palazzeschi, pur avendo aderito al futurismo, si accosta ai crepuscolari per una dolorosa visione della vita che talvolta si adombra sotto un'ironia apparentemente buffonesca. Le sorelle Materassi è la storia della malinconica decadenza fisica ed economica di due zitelle, rovinate dal nipote che le abbandonerà lasciandole povere ma con l'illusione di avere vissuto, di avere partecipato alla gioia della vita attraverso il contatto con la sua fresca e violenta giovinezza. È, questo, un tema ricorrente del Palazzeschi narratore: coloro che vivono ai margini cercano nel contatto con i vincitori la loro parte di vita: la conclusione è sempre l'abbandono, ma con la gioia di non aver perduto del tutto l'esistenza. Il romanzo si apre con una minuziosa descrizione dei dintorni di Firenze, dove a Santa Maria a Coverciano vivono le sorelle Materassi. Teresa e Carolina, facoltose ricamatrici di biancheria finissima, trascorrono la loro vita immerse nel lavoro. Vive con esse un'altra sorella, Giselda, che in gioventù si è sposata contro il loro parere e che, dopo cinque anni di infelice vita matrimoniale, è tornata a cercare ospitalità nella casa delle ricamatrici, ormai destinata al silenzio, in una posizione ambigua "né serva né padrona", fra le sorelle e Niobe, la vecchia domestica di casa. La monotonia della vita di queste quattro donne è improvvisamente rotta dalla morte della quarta sorella Augusta che viveva ad Ancona, vedova e madre di un ragazzo quattordicenne, Remo. Egli andrà a vivere con le zie a Santa Maria a Coverciano e la vita delle Materassi assumerà un ritmo assolutamente nuovo. Remo si dimostrerà ben presto dotato di un eccezionale egoismo davanti al quale le zie cinquantenni non sapranno difendersi: Giselda - unica accusatrice - sarà sempre più emarginata; la vita di Teresa e Carolina sarà un susseguirsi di cedimenti che manderanno in fumo il patrimonio tanto faticosamente ricostruito alla morte del padre. Remo se ne andrà a New York sposando un'americana ricca e le Materassi, nella più assoluta indigenza, si ridurranno a cucire i corredi per le figlie dei contadini: di Remo rimarrà in casa una fotografia, dove è ritratto in costume da bagno, che sarà oggetto di amorosa contemplazione da parte delle due zie e di Niobe. Lo sviluppo del romanzo, scrive G. Pullini, "non procede attraverso un racconto continuo di fatti e di tempi, ma soprattutto attraverso una definizione di momenti psicologici fondamentali per le reazioni contrastanti che producono nei personaggi...". Questo romanzo si può considerare "un punto fermo della narrativa italiana del Novecento, come momento di incontro e di conciliazione fra le tendenze antitetiche e della personalità di P. e della narrativa italiana in generale: fra l'ansia, cioè, di un assoluto lirico e l'accettazione della realtà come misura completa".
Orazio Pugliese


STAMPE DELL'OTTOCENTO

Raccolta di racconti pubblicata nel 1932. Palazzeschi, che aveva esordito come poeta, crepuscolare agli inizi, futurista per una breve successiva parentesi, non era nuovo a esperimenti di narrativa. Eppure questo libro, uscito dopo alcuni anni di silenzio, sorprese per la sua carica di novità vanificando ogni probabile, ulteriore etichettatura letteraria del versatile scrittore. La ripresa dell'attività scrittoria era questa volta caratterizzata da una impostazione autobiografica: Palazzeschi proponeva al lettore alcuni episodi, tra i più significativi, della propria infanzia, già pervasi di quella "prepotente curiosità della vita", che anima e impronta di sé lo "spirito inafferrabile di un fanciullo, dai due ai sei anni". Il piccolo P., pur crescendo in un ambiente borghese che tendeva a frustrare non solo la sua esuberanza fisica, ma soprattutto la sua fantasia, la sua vivacità mentale e i primi, inquietanti "perché", mostrava i segni percettibili di una personalità insofferente dei compromessi, delle convenzioni formali e della falsa "pruderie" di una società al tramonto, quella ottocentesca, bonaria e modesta forse, ma carente di naturalezza. Si chiudeva un secolo a cui in definitiva lo scrittore non aveva mai sentito di appartenere. Ecco perché, guardandosi a ritroso, egli non può che percorrere una galleria di ritratti, di personaggi e figure quasi da museo: "stampe", appunto, tratteggiate con lo stile un po'tradizionale che a esse si addice. Un repertorio di macchiette (la sora Parisina, la sora Isabella, il bell'Alfredo, la sora Vittoria), di mode dell'epoca (i primi "café chantant", le passeggiate in carrozza, il pattinaggio, il melodramma), filtrate attraverso l'umorismo benevolo di chi appartiene a tutt'altro mondo e sa guardare con occhio distaccato, a tratti compiaciuto, lo spettacolo di quegli anni, fedele alla sua poetica del "lasciatemi divertire". In fondo anche in questo libro, che preparò la strada al successivo, più noto romanzo, Le sorelle Materassi, non era difficile riconoscere l'eco di quel lontano manifesto del 1913, Il controdolore, d'epoca marinettiana, dove P. aveva fissato le linee fondamentali della propria arte, alla quale doveva mostrarsi, pur nella varietà dei temi e delle formule letterarie, sempre aderente. In questi racconti dove la vicenda temporale, nello svolgersi delle stagioni, segue una linea coerente di sviluppo, non manca una lieve sfumatura di malinconia: per esempio nell'immagine della morte, che si rivela, misteriosa e impenetrabile, al bambino ignaro, o nella parentesi della fuga ai giardini, una ricerca di solitudine, prima di allora ignota e negata, che assume un senso intimo e un po'amaro di felicità. Ma più frequenti sono le pagine vivaci, nell'immediatezza dei dialoghi, ricchi di battute in dialetto fiorentino, modi di dire, toscanismi.
Valentina Fortichiari


I FRATELLI CUCCOLI

Romanzo. Il conte Celestino Cuccoli, un facoltoso cinquantenne, la cui vita interiore è stata influenzata dalla figura dominante della madre, avverte a cinquant'anni compiuti un grande vuoto interiore che decide di colmare mettendosi alla ricerca di un "amore in carne", che non sarà una donna da amare, né un matrimonio da combinare, ma che si tradurrà in una decisione di rilievo: l'adozione di quattro trovatelli. A Sergio, Osvaldo, Renzo e Luigino dedicherà ogni cura, né saranno risparmiati da vizi costosi, mondanità e frivolezze che con il tempo lo porteranno alla rovina. Alla catastrofe economica si assommeranno spiacevolmente il rifiuto, da parte di Sergio, Osvaldo e Renzo, di provvedere al sostentamento di tutti, la misteriosa presenza notturna vicino ai gioielli di famiglia di tre ombre che sfocerà in una colluttazione nella quale saranno sparati due colpi di pistola contro Celestino. Al processo, descritto in tono di farsa, i tre saranno assolti per insufficienza di prove. In seguito ritroviamo il conte Cuccoli in un paese di montagna, in casa della domestica Minerva, da lei generosamente mantenuto; con lo scoppio della seconda guerra mondiale, arriva la notizia della morte di Renzo. Passano ancora gli anni e un giorno, davanti alla umile casa di Minerva, si ferma una lussuosa automobile. A mandarla sono stati Osvaldo e Sergio che ora godono di una posizione economica assai florida. Quando tutto sembra andare per il meglio il vecchio Celestino comincia a frequentare le bische, si accompagna a donne equivoche, emette assegni a vuoto e sposa, per finire in bellezza, una giovane fanciulla che assomiglia in modo sorprendente a una donna da lui amata in gioventù. Il romanzo si chiude con la morte di Celestino, davanti all'altare, stroncato dal battito troppo forte del suo cuore, descritta con parole auliche che lasciano trasparire l'ammirazione di Palazzeschi per il suo personaggio, il timorato di Dio, l'uomo desideroso di vivere l'esperienza della paternità a ogni costo e senza riserve, fiducioso e seraficamente indolente. La preoccupazione e l'intenzione di Palazzeschi di creare con Celestino un personaggio edificante, un eroe del tutto positivo e rispondente ai valori della morale corrente, hanno deviato l'autore dalla sua vena migliore fatta di ironia e di umorismo. Giansiro Ferrata, a proposito dei Fratelli Cuccoli, scriverà: "Palazzeschi mostra di avere ingabbiato il suo boccaccesco nel manzoniano: ma a una pietà intimamente religiosa egli era più vicino quando guardava con più furore alla vita".


IL CODICE DI PERELÀ

Romanzo futurista di Aldo Palazzeschi (pseud. di Aldo Giurlani), pubblicato nel 1911. Nel 1954 è stato rielaborato e pubblicato con il titolo Perelà, uomo di fumo. "Perelà è la mia favola aerea, il punto più elevato della mia fantasia"; con questa affermazione Palazzeschi riesce a centrare con precisione minuziosa il senso e il significato di questa sua opera letteraria, la più rilevante e "leggera", come Palazzeschi stesso amerà chiamarla, di tutta la sua produzione, e non solo di quella giovanile. La "leggerezza" sembra essere l'obiettivo, "il progetto" narrativo ricorrente, non tanto per un esplicito riferimento alla levità che fluidamente scaturisce dalla narrazione, quanto piuttosto per quell'amabilità e quella capacità di estrosi mutamenti di toni e situazioni che serpeggiano per tutta l'opera. Chi è Perelà? "Io sono un uomo molto leggero... io sono di fumo... come il cieco sapevo tutto senza avere veduto niente. La storia di tutti gli uomini nelle loro azioni e nei loro sentimenti senza sapere con precisione come gli uomini fossero fatti, i nomi di tutte le cose senza sapere quali fossero le cose che a quei nomi corrispondano, come il cieco a cui sia donata per incanto la luce. Io dovevo vedere". È una nuvola a forma di uomo, vissuto su per un camino di una casa sperduta, abitata da tre donne vecchissime, Pena, Rete, Lama, alimentato per trentatré anni dall'ardere ininterrotto dei ceppi di legna che le donne, chiacchierando di guerra, di amore, di odio, lasciavano bruciare sotto di lui. "Ascoltai giorno per giorno sempre meglio le voci, fino a distinguere le parole e il loro significato, fino a coglierne le più riposte sfumature... ero un uomo. Ma non sapevo come fossero gli altri uomini che credevo tutti uguali a me". Pena, Rete, Lama, le tre creature madri e le educatrici ignare di Perelà, un giorno non parlano più. Perelà scende dalla cappa e piange disperatamente la loro scomparsa, calza gli stivali che trova ai piedi del camino e si avvia verso la città. Qui incontra i soldati del re che, incuriositi dalla sua strana storia, lo portano al cospetto del cerimoniere di corte; questi lo fa accompagnare nella sala delle udienze per incontrare gli uomini più prestigiosi della città: lo scultore di corte, il pittore della regina, fotografi, giornalisti, i banchieri di stato, un poeta, il critico della "letteratura nazionale ufficiale", un filosofo pessimista, il medico di corte e per finire l'arcivescovo. Segue un incontro con le dame di corte per il tè, occasione di confidenze amorose, l'udienza privatissima con la regina e il ballo in suo onore presenziato dal re in persona. L'interesse che Perelà suscita con la sua curiosa presenza, aumenta di giorno in giorno fino a diventare successo; viene nominato ispettore generale con l'incarico di creare un nuovo codice riformatore. Per vedere più da vicino la vita degli altri uomini, che quasi non conosce, farà un viaggio di ispezione alle istituzioni del regno: il manicomio, l'esercito, il carcere e, il prato dell'amore. Un fatto sconvolgente, il suicidio di Alloro, il primo cameriere del re che nel tentativo ingenuo di diventare leggero come Perelà ha acceso un gran fuoco e, espostosi al fumo per lungo tempo, è morto bruciato, insospettisce il consiglio di stato che, dopo un processo, lo giudica colpevole di aver convinto Alloro a uccidersi. Perelà viene rinchiuso in una cella sulla più alta delle colline che circondano la città, dove ha modo di riflettere sulla sua condizione e su quella degli uomini della città, che lo hanno defraudato di quanto ha di più caro: la leggerezza. Nella cella non resta a lungo: si toglie gli stivali e, passando dal camino che la contessa Oliva di Bellonda, sua innamorata, già durante il processo gli aveva fatto costruire, se ne andrà per sempre, piccola nuvola grigia a forma di uomo, salendo per il cielo. La critica si è domandata che cosa ci fosse dietro Perelà e ha proposto metafore e simboli spesso prevaricando le intenzioni di Palazzeschi Ardengo Soffici ha ipotizzato che Perelà simboleggiasse la poesia. Mario Miccinesi ha osservato: "Una delle caratteristiche di P. come scrittore sta proprio in una sua spiccata umoralità, ovvero nella tendenza ad abbandonarsi agli estri dell'umore senza mai avere né la volontà né la forza di superare i suggerimenti di una umorale fantasia".
Stefania Ferretti


IL DOGE

Romanzo. Quest'opera della maturità del narratore fiorentino, cui venne assegnato il premio Gabriele D'Annunzio, è ambientata nella Venezia di oggi. Con l'intervento dei moderni mezzi di comunicazione, come l'altoparlante e il telefono, si stimola nei veneziani l'inclinazione a scoprire, a creare e a diffondere voci, a ingigantirle, a farle diventare storie grottesche, mentre si alternano stati d'animo apocalittici ed euforici. Per tre giorni consecutivi, di buon mattino, gli altoparlanti annunciano che a mezzogiorno il doge si sarebbe mostrato dalla loggia del suo palazzo per parlare al popolo. Per ben tre volte passa l'ora stabilita senza che il sovrano compaia: il primo giorno il popolo, all'inizio festosamente disposto, si abbandona poi alle voci e alle supposizioni più disparate circa l'assenza del doge. Il secondo giorno "l'eccitazione dionisiaca" si placa, si comincia a parlare di rivoluzione e di guerra, e i veneziani si barricano nelle loro case. Così il terzo giorno, quando veramente il doge, con la dogaressa e un'altra donna a fianco, avrebbe dovuto mostrarsi, per annunciare la fine dell'epoca della monogamia, in piazza San Marco non c'è nessuno. Nei giorni seguenti la folla aspetta di nuovo l'apparizione del doge; l'aspetta nelle dolci notti estive e gli dedica allettanti serenate. Tutt'a un tratto ecco la catastrofe, il giorno del giudizio universale, quando gli altoparlanti annunciano: "la basilica di San Marco non c'è più". Questa atrocità non può che trovare una spiegazione: il doge in persona è salito sul terrazzo della chiesa di San Marco, ha afferrato le briglie della celebre quadriga e, nell'incitare i focosi cavalli al galoppo, ha trascinato con sé, nella sua irruenza, la basilica. Soltanto il giorno dopo la città si riprende dalla paura, quando viene a sapere che "la basilica di San Marco grazie a una forza soprannaturale... è tornata al suo posto, miracolosamente scampata e ancora più bella e con i suoi quattro cavalli". Una volta di più i veneziani sono debitori di questa meraviglia al loro leggendario doge, "fenomeno spiegabile solo se lo si riconduce alla meravigliosa originalità fantastica di Venezia e dei suoi centoventi dogi, necessari per farne uno come quello". La struttura del romanzo, che si sviluppa da una trama novellistica, equivale a quella di una commedia in cinque atti. A essa tuttavia si sovrappongono, con un ritmo ondulato, gli alti e bassi degli stati d'animo. Quanto più audaci sono i fatti e le circostanze narrati, tanto più sicura si fa l'asserzione. Se alla base della situazione c'è l'assurdità totale, i fatti vengono riferiti all'indicativo, in una sintassi sempre più funambolica e spericolata (Pampaloni ha parlato di "paratassi metafisica"). La stessa trama, l'azione fantastica di un'intera città, offre lo spunto per continue digressioni del narratore, per l'inframmezzarsi di osservazioni maliziose e di massime troncate dall'ironia, per la continua reinterpretazione di motivi ricorrenti: Dante, l'inferno dantesco, le numerosissime valigie dei turisti.
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DUE IMPERI… MANCATI

Opera autobiografica dpubblicata nel 1920, dove l'autore esprime il suo atteggiamento di condanna della guerra. Nelle prime e nelle ultime pagine egli conduce una polemica durissima contro questo avvenimento atroce e contro coloro che lo hanno provocato, sacrificando cinicamente vittime innocenti a interessi individuali. Si scaglia contro il militarismo e l'interventismo e lancia velenose frecciate contro D'Annunzio, che ha contribuito a diffondere il mito dell'eroe. Nei suoi attacchi Palazzeschi alterna momenti di lucida analisi a un'amara ironia, manifestando un profondo turbamento interiore. Nella parte centrale del libro descrive la sua vita militare. Con il richiamo alle armi, la guerra si trasforma per lui da incubo ossessivo in cruda realtà. Il suo sconvolgimento ha sintomi precisi: la paura del silenzio e della solitudine, il bisogno di calore umano. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine, dove il nodo della sua disperazione si scioglie in un pianto dirotto, egli trova una serenità, da lui stesso definita "ascetica", che lo rende aperto verso gli altri, facendogli trovare l'unica salvezza possibile dall'abbrutimento e dalla degradazione provocati dalla guerra: l'amore e la solidarietà umana. Cerca di alleviare le pene dei compagni, li sostituisce nelle incombenze, si prodiga per tutti, accettando con rassegnazione gli insulti di coloro che, costretti a partire, dimenticano in un attimo la riconoscenza che gli devono. Palazzeschi descrive con pagine di dolore e di umanità l'atmosfera e le figure della vita militare: il cantore della Cappella Sistina, il poeta soldato a cui la burocrazia impedisce di visitare il figlio morente, l'entusiasmo delle uscite domenicali che lo lasciano solo nelle camerate immerse nel silenzio, l'indifferenza dei superiori, l'angosciosa attesa del richiamo al fronte. Un improvviso cedimento fisico, dovuto alla fatica del duro lavoro cui si è sobbarcato, costringe l'autor a un periodo di licenza. Il suo rientro in caserma coincide con la notizia della disfatta di Caporetto. Egli viene mandato a Roma, la cui vivace e disordinata prosperità, derivata dalla speculazione sulla guerra, contrasta con la desolazione di Firenze, piena di profughi privati di ogni avere. L'ultima sua mansione è quella di spedire alle famiglie gli oggetti dei soldati morti; infine gli giunge il congedo. Con la fine della descrizione della vita militare, il libro riprende il tono delle prime pagine, che hanno il ritmo incalzante dell'accesa polemica.
Marina Restelli

 

Luigi De Bellis