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Paolo
il caldo |
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Romanzo pubblicato a Milano postumo e non del tutto finito
nel 1955, con una prefazione di Alberto Moravia. È la
biografia del barone Paolo Castorini, la cui vita si
svolge tra una torrida Catania e la Roma corrotta, come a
dire tra la sensualità innocente e la lussuria malata: la
causa che lo sbalza da Catania a Roma è la morte del
padre, Michele, la quale per un risucchio di affinità di
temperamento butta la madre, Marietta, nelle braccia del
cognato Edmondo. Il motivo che, muove il romanzo è la
dicotomia operante nel profondo di Paolo, conteso tra la
passione avvolta nell'incandescente materia della vita e
la legge della ragione che invece si nutre di meditazione
morale, di esame di coscienza. Con uno spunto felicissimo,
tale dicotomia è operante sulla base di una legge
mendeliana, e quasi incarnata, nel nonno - magnifico
personaggio, barocco la sua parte, di una vitalità che
trabocca avvampante da ogni lato - e nel padre, che è
"saggezza, cogitazione e religiosità", e di proposito si
richiama all'esemplare leopardiano, alla felicità della
ragione (inutile dire che in Paolo prevale e rivive il
nonno). A completare questo "salto" mendeliano, mentre sui
quarant'anni la stanchezza della carne sembra lentamente
rifluire verso una sorta di emaciazione spirituale dove
"la parola io si disegnava con un'ombra di D davanti",
l'ironia vuole che Paolo s'innamori davvero e sposi una
ragazza che poi gli si rivela anemica e di una dolcissima
frigidezza. È insomma il ritorno del padre nella sua vita:
se per un momento Paolo aveva sperato che la felicità
dell'amore fosse l'inizio di una vita, anche
letterariamente feconda e onesta, la delusione lo fa
sprofondare di nuovo a un livello ormai irredimibile di
lussuria, in un reciproco aizzarsi di rimorso, vergogna e
desiderio, dove il tormento così sterile della voluttà
ricorda gli accenti di Baudelaire, specialmente quello dei
diari intimi (Il mio cuore a nudo). Una nota stampata alla
fine del libro, e tratta dalle ultime disposizioni
dell'Autore, dichiara che il romanzo avrebbe dovuto avere
ancora due capitoli, "nei quali si sarebbe raccontato che
la moglie non tornava (più) da Paolo ed egli, in
successivi accessi di fantastica gelosia, si aggrovigliava
sempre di più in sé stesso fino a sentire l'ala della
stupidità sfiorargli il cervello". Alla fine, tutto il
romanzo appare riportato al motivo dell'aculeo del
cattolicesimo confitto entro la massa di un'islamica
carnalità che non riesce mai ad appagarsi. È l'impossibile
distinzione, traversante tutto il romanzo, tra l'innocente
sensualità e la consapevole lussuria: una variante e forse
la maschera dell'impossibile affrancamento dalla
ossessione sessuale. Ma questo feroce determinismo è
soltanto il segno di una crisi non confessata nei suoi
principi, il crollo di un mondo morale e religioso il cui
residuo fermentando aveva già provocato il giuoco
dialettico pirandelliano e inasprito la generazione dei
Rubé. Tale motivo, basso continuo ideale da cui Brancati
non poteva svincolarsi, trova nel romanzo una spasimata
compiutezza artistica. Un certo barocchismo mescolato di
motivi decadentistici, un serpeggiare di comico che ha le
sue punte crudeli (le beghe letterarie o la mondanità di
Roma, la telefonata alla sarta con le interferenze
continue), scoppi di intelligenza più incisiva (l'arrovellio
sociale del nostro tempo diviso tra il culto della vita
collettiva e l'odio per le termiti sociali così
proliferanti tra loro), sono alcune tra le note salienti
del romanzo.
Artal Mazzotti
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