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IL NOVECENTO
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LA POESIA PURA
Crepuscolari e Futuristi non
hanno lasciato documenti poetici
di grande rilievo, ma la resa
senza condizioni dei primi di
fronte alla crisi morale e la
violenta rivolta stilistica dei
secondi favorirono senza dubbio
i tentativi che altri fecero sia
per superare la crisi che per
realizzare una poesia veramente
nuova e vaccinata contro ogni
possibilità di un ennesimo
classicismo. Sono costoro i
cosiddetti Poeti Nuovi che
diedero vita alla Poesia pura,
da cui derivò l’Ermetismo.
I Poeti nuovi ripudiano tanto la
solennità di una poesia
vaticinante che si illudeva di
poter riscattare l’umanità dalle
tenebre del degrado morale
(Carducci), quanto la prosaicità
avvilente di una poesia ridotta
a cantare le piccole
insignificanti avventure del
quotidiano, nutrita di una
desolante rassegnazione alla
morte (Crepuscolari). Per essi
la poesia non deve rispecchiare
alcuna realtà, nobile od umile
che sia, in quanto è essa stessa
creatrice di “realtà”, va cioè
considerata un universo in sé
compiuto ed autonomo. Essi non
hanno miti da illustrare e
propagandare, ma «tendono alla
sincerità assoluta della
testimonianza esistenziale,
approfondita dallo scavo nella
coscienza» (Pazzaglia). Per
questo essi rifiutano i nessi
logici fra le varie immagini, il
discorso coerente, il
significato corrente delle
parole: cioè tutto quanto
l’umanità ha inventato per
decifrare ed esprimere la realtà
che cade sotto gli occhi
dell’uomo storico. «...il poeta
constata che non ha più certezze
o miti da proporre col canto a
gola spiegata, oratorio e
parenetico, ma può salvare
qualche relitto di un naufragio,
può solo offrire qualche storta
sillaba e secca: l’adozione di
nuovi moduli espressivi è quindi
conseguenza di una nuova
posizione etica» (Guglielmino).
In effetti i Poeti puri depurano
la parola di tutti i significati
che le si sono sovrapposti
durante il suo corso storico e
cercano di coglierla nella sua
primitiva verginità, usandola
più per le sensazioni primigenie
che riesce ad evocare e per il
suono che produce che per il suo
significato attuale. Inoltre
fanno largo impiego
dell'analogia per ottenere
quell’essenzialità
indispensabile a chi ha
rinnegato ogni espressione
logico-discorsiva.
Barberi-Squarotti così commenta
un esempio di analogia tratto da
Ungaretti:
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Tornano in alto
ad ardere le favole |
«...non è più possibile
ricostruire i passaggi di
fantasia e di immagini che hanno
fatto di quelle stelle le
favole, ma rimane viva e chiara
la suggestione di lontananza, di
sogno e di speranza (forse di
favole udite alla luce delle
stelle, o di illusioni cadute
che tornano a risplendere nel
cielo della vita) che
l’analogia, l’identificazione
dei termini hanno voluto
creare». Con ciò il critico ci
vuol fare intendere che è quasi
impossibile voler ricostruire il
percorso effettuato dalla
fantasia del poeta, ma non è
impossibile stabilire
intuitivamente un’intesa, una
corrispondenza con l’emozione
provata dal poeta, capace di
suscitare in noi una emozione,
magari anche di natura diversa,
ma non per questo priva di
quella misteriosa carica che
riuscirà a far vibrare le corde
della nostra commozione.
Tra i rappresentanti più
significativi della Poesia pura
ricordiamo Giuseppe Ungaretti,
Eugenio Montale ed Umberto Saba.
Giuseppe Ungaretti nacque, da
genitori lucchesi, ad
Alessandria d’Egitto nel 1888.
Trasferitosi a Parigi per
ragioni di studio (frequentò la
Sorbona), strinse rapporti di
amicizia con Picasso e
Apollinaire. Nel 1914 venne in
Italia e cominciò a pubblicare
le sue prime poesie su “Lacerba”.
Intanto, allo scoppio della
prima guerra mondiale, si
schierò dalla parte degli
interventisti e partecipò poi
egli stesso alla guerra in prima
linea, ricavando proprio dagli
orrori della guerra le
indicazioni più determinanti sia
per le sue scelte morali, sia
per quelle artistiche, sia per
quelle religiose. Dopo la guerra
si stabilì a Roma, ove visse in
ristrettezze economiche, finché
non si trasferì, nel 1936, a San
Paolo del Brasile, ove gli venne
assegnata la cattedra di lingua
e letteratura italiana presso
l’università. In Brasile fu
colpito da una grave disgrazia,
la morte del figlioletto
Antonietto, di appena nove anni,
che lo sconvolse enormemente.
Finalmente nel 1947 poté far
ritorno in Italia, essendo stato
chiamato all’università di Roma
ad insegnare letteratura moderna
e contemporanea. Morì a Milano
nel 1970.
La sua prima raccolta di versi
risale al 1916, “Il porto
sepolto”, seguita nel 1919 dalle
poesie di “Allegria di
naufragi”. Vennero poi le
raccolte di “L’Allegria” (1931),
“Sentimento del tempo” (1933) e
“Il dolore” (1947). Tutte le sue
poesie sono ora raccolte nel
libro della Mondadori “Vita di
un uomo”.
«L’analogia, fondamento della
poetica ungarettiana, è una
similitudine privata del come,
cioè d’ogni riferimento logico;
è l’accostamento di cose e
sensazioni apparentemente
lontane e la scoperta d’una loro
relazione organica, della
fusione di esse e dell’animo che
le intuisce, nell’elementare
unità dell’essere. E' un
procedimento tipico della poesia
decadentistica e simbolistica,
che l’Ungaretti riduce
all’essenziale: non più a un
fluire di immagini, ma alla
vibrazione evocativa della
parola singola; ...E' come se il
poeta riscoprisse la fase
originaria del linguaggio,
quando il dare un nome alle cose
fu per l’uomo la scoperta
intuitiva del suo rapporto col
mondo. A questa primitività, a
questa innocenza tende tutta la
poesia dell’Ungaretti. » (Pazzaglia).
Qualche esempio:
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IL PORTO SEPOLTO (1916)
Vi
arriva il poeta
e poi torna alla luce
con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto |
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MATTINA (1917)
M'illumino
d'immenso |
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SAN MARTINO DEL CARSO
(1916)
Di
queste case non è
rimasto
che qualche
brandello di muro
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel mio cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato |
Tra le due raccolte più
significative delle poesie
ungarettiane, “L’Allegria” e
“Sentimento del tempo”, vi sono
delle differenze che è opportuno
notare. Nella prima raccolta è
cantata prevalentemente la pena
dell’Uomo-Ungaretti, nella
seconda la pena esistenziale
dell’Uomo moderno. Nella prima
il Poeta mette a nudo la parte
più riposta della propria
coscienza, nella seconda -
aiutato dalle riconquistate
certezze della fede - va alla
ricerca di quel filo che lega
l’effimero scorrere del tempo
con l'eterno. Nella prima
esaspera il metodo analogico
dell’espressionismo più puro,
nella seconda tenta un recupero
dei metri tradizionali al
servizio dell’analogia,
confidando egli stesso:
«Rileggevo umilmente i poeti, i
poeti che cantano. Non cercavo
il verso di Jacopone o quello di
Dante o quello del Cavalcanti o
quello del Leopardi: cercavo in
loro il canto. Non era
l’endecasillabo del tale, non il
novenario, non il settenario del
tal altro che cercavo; era
l’endecasillabo, era il
novenario, era il settenario,
era il canto italiano, era il
canto della lingua italiana che
cercavo nella sua costanza
attraverso i secoli, attraverso
voci così numerose e così
diverse di timbro e così gelose
della propria novità e così
singolare ciascuna
nell’esprimere pensieri e
sentimenti: era il battito del
mio cuore che voleva sentire in
armonia con il battito del cuore
dei miei maggiori di una terra
disperatamente amata».
Ecco una poesia in cui abbondano
gli endecasillabi:
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LA MADRE (1933)
E
il cuore quando d'un
ultimo battito
avrà fatto cadere il
muro d'ombra,
per condurmi, Madre,
sino al Signore,
come una volta mi darai
la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti
all'Eterno,
come già ti vedevo
quando eri ancora in
vita.
Alzerai tremante le
vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio,
eccomi.
E solo quando m'avrà
perdonato,
ti verrà desiderio di
guardarmi.
Ricorderai d'avermi
atteso tanto,
e avrai negli occhi un
rapido sospiro. |
Eugenio Montale nacque a Genova
nel 1896 e lì portò a termine
gli studi liceali, iscrivendosi
poi alla facoltà di lettere. A
causa della prima guerra
mondiale, che lo impegnò come
ufficiale di fanteria, dovette
sospendere gli studi
universitari. Dopo la guerra si
avvicinò alle idee liberali del
Gobetti e collaborò alla rivista
“La Rivoluzione liberale”, nella
quale pubblicò le sue prime
poesie. Passò poi a Firenze a
dirigere il Gabinetto
scientifico letterario “G.P.
Vieusseux”, ma circa dieci anni
dopo, nel 1939, essendosi
rifiutato di iscriversi al
Partito fascista, fu licenziato
(egli, infatti, a differenza
dell’Ungaretti che nutrì una
certa simpatia per il Mussolini
ed accettò finanche che questi
scrivesse la “presentazione”
alla sua raccolta di versi “Il
porto sepolto” nell’edizione del
1923, fu sempre ostile alla
dittatura del Duce). Comunque
egli proseguì nella sua attività
di poeta, ampliandola con quella
di traduttore (soprattutto
dall’inglese), di critico
letterario (si deve a lui la
scoperta italiana di Italo Svevo
nel 1925) e di critico musicale
(aveva anche tentato la carriera
di baritono nel teatro lirico ma
senza successo). Dopo la seconda
guerra mondiale si trasferì a
Milano, ove nel 1947 fu
redattore del “Corriere della
Sera” e morì nel 1981.
Le sue raccolte di poesie più
importanti sono “Ossi di seppia”
(1925), “Le occasioni” (1939) e
“La bufera e altro” (1956), ma
non sono da dimenticare le
successive poesie, i racconti,
le prose poetiche e i numerosi
saggi ed articoli di critica
letteraria, politica e musicale.
Anch’egli esprime nella sua
poesia l’angoscia esistenziale
di se stesso e dell’uomo
moderno, la pena del vivere che
assurge ad emblema della vita
universale, ma la sua angoscia è
senza speranza, non riesce a
trovare alcuna fede che potesse
in qualche modo riscattarla o
almeno finalizzarla ad un ideale
superiore. «Il pessimismo del
poeta - scrive il Pazzaglia - è
radicale. Vivere, per lui, è un
continuo perdersi in una trama
di atti e di gesti vani, dietro
i quali sta il vuoto, un
incomprensibile destino di
delusione totale,
d'incomunicabilità assoluta...
La sua poesia è molto spesso
oscura, ma non si tratta, almeno
in generale, d'una oscurità
programmatica e compiaciuta.
Essa nasce soprattutto dalla
scoperta dell’assurdità del
reale, del rovesciamento delle
certezze apparentemente più
solide».
Per quanto riguarda lo stile,
anche il Montale chiede alla
parola piuttosto una carica
evocativa che un significato
certo, ma egli non giunge al
ripudio totale dell’espressione
poetica tradizionale del primo
Ungaretti e si avvicina, semmai,
all'ultima esperienza del poeta
di “Sentimento del tempo”.
Ed ora due esempi tratti dalla
raccolta “Ossi di seppia”:
|
MERIGGIARE PALLIDO E
ASSORTO
Meriggiare pallido e
assorto
presso un rovente muro
d'orto,
ascoltare tra i pruni e
gli sterpi
schiocchi di merli,
frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o
su la veccia
spiar le file di rosse
formiche
ch'ora si rompono ed ora
s'intrecciano
a sommo di minuscole
biche.
Osservare tra frondi il
palpitare
lontano di scaglie di
mare,
mentre si levano tremuli
scricchi
di cicale dai calvi
picchi.
E andando nel sole che
abbaglia
sentire con triste
meraviglia
com'è tutta la vita e il
suo travaglio
in questo seguitare una
muraglia
che ha in cima cocci
aguzzi di bottiglia.
SPESSO IL MALE DI
VIVERE...
Spesso il male di vivere
ho incontrato:
era il rivo strozzato
che gorgòglia,
era l'incartocciarsi
della foglia
riarsa, era il cavallo
stramazzato.
Bene non seppi, fuori
che il prodigio
che schiude la divina
Indifferenza:
era la statua nella
sonnolenza
del meriggio, e la
nuvola, e il falco
levato. |
Umberto Saba va anche annoverato
fra i Poeti nuovi, fra quelli,
cioè, che tentarono vie nuove
alla poesia italiana, ma la sua
esperienza artistica ha ben
poco in comune con quelle del
Montale e dell’Ungaretti. Semmai
qualche contatto possiamo vedere
con la poesia dei Crepuscolari,
in quanto anch’egli si dedicò al
canto delle piccole cose
quotidiane, ma è bene precisare
che anche qui si tratta di una
somiglianza puramente
epidermica, dal momento che
l’atteggiamento psicologico e
morale è ben diverso nel Saba:
infatti egli accettò la vita,
pur considerandola dolorosa,
solidarizzò con gli uomini,
specialmente i più umili («Qui
degli umili sento in compagnia /
il mio pensiero farsi / più puro
dove più turpe è la vita»), e
credette in taluni valori
semplici da dover cantare con le
parole del linguaggio comune
(«La fede avere / di tutti, dire
/ parole, fare / cose che poi
ciascuno intende, e sono,/ come
il vino ed il pane,/ come i
bimbi e le donne, / valori / di
tutti»). Quindi l’uso che fa
della parola è anche ben diverso
rispetto agli altri poeti nuovi
del suo tempo, in quanto egli
non ricerca suggestioni
evocative ma significati
pregnanti e concreti legati alle
cose ed al linguaggio comune.
Il Saba nacque a Trieste nel
1883 da madre ebrea e padre
cristiano. Questi, prima ancora
che nascesse il figlio,
abbandonò la moglie, sicché il
bambino crebbe praticamente
senza padre. Dopo una breve
carriera scolastica irregolare e
senza esito, partì per il
servizio militare, che gli fu di
grande aiuto per la sua
formazione. Nel 1912 aprì una
libreria antiquaria a Trieste e
per tutta la vita restò fedele
alla sua città natale ed alla
sua attività commerciale, se si
eccettuano gli anni della
seconda guerra mondiale durante
i quali dovette riparare prima a
Parigi e poi a Roma per
sottrarsi alle persecuzioni
naziste contro gli ebrei.
Morì a Gorizia nel 1957.
Tutte le sue poesie,
numerosissime, sono raccolte in
un “Canzoniere” che ha avuto
diverse edizioni.
Riportiamo ora una delle poesie
più famose del Saba:
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LA CAPRA
Ho
parlato a una capra.
Era sola sul prato, era
legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era
fraterno
al mio dolore. Ed io
risposi, prima
per celia, poi perché il
dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra
solitaria.
In una capra dal viso
semita
sentiva querelarsi ogni
altro male,
ogni altra vita. |
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