Parliamo di |
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Autori
del Novecento italiano |
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Guglielmino Grosser |
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Il
teatro: la situazione italiana |
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Prima di soffermarci sui vari aspetti
del panorama teatrale italiano fra le due guerre ci sembra
opportuno richiamare l'attenzione su un dato di carattere
generale. Vale a dire: nel Novecento italiano, ma in
maniera più evidente a partire dagli anni Venti non c'è
quasi alcun narratore che non abbia scritto opere di
teatro, e tuttavia, ormai quasi alla conclusione del
secolo, i grandi autori restano soltanto Pirandello e
Eduardo. La verità è che, come ha scritto Davico Bonino,
«una cosa è essere scrittore di teatro e altra è essere
scrittore per il teatro, vivendo in questo secondo caso
l'esperienza drammaturgica con un margine di timidezza e
di sospetto, affascinati e diffidenti ad un tempo, come
degli "ospiti", a tempo determinato, della scena». Siamo
di fronte, in questi casi, ad esperienze drammaturgiche
che si possono definire tali solo per la presenza di certi
elementi (dialogo, divisione in atti), ma che in realtà si
distinguono per caratteristiche non specificamente
teatrali (qualità di scrittura, invenzione fantastica,
ecc.) Di questo tipo di opere - che solo tangenzialmente
riguardano la storia del teatro - sono autori tanti dei
nostri narratori, da Svevo (La rigenerazione, 1928) ad
Alvaro (Lunga notte di Medea, 1949), da Bontempelli
(Minnie la candida, 1927) a Savinio (Capitano Ulisse,
1934), da Bacchelli (quindici lavori tra il '20 e il '50)
a Moravia (Beatrice Cenci, 1958; Il mondo è quello che è,
1966).
Fatta questa premessa, un rapido inventario della
situazione teatrale italiana potrebbe articolarsi nei
punti che seguono.
C'è anzitutto la produzione di Pirandello: il
riconoscimento internazionale si amplia progressivamente,
il pubblico italiano via via "si abitua", lo steso
Pirandello oltre che autore è, ad un certo momento, anche
capocomico, crea una sua compagnia, trova in Marta Abba la
sua interprete privilegiata, per la quale scrive
appositamente alcune pièces (Come tu mi vuoi, ad esempio,
nel 1930, da cui fu tratto anche un film).
Ma Pirandello è (ancora oggi) un autore difficile, la sua
ideologia e la sua concezione del teatro non sono certo
rassicuranti e mal si adattano alle esigenze di chi
concepisce lo spettacolo teatrale come conclusione mondana
e piacevole di una giornata. Per questo tipo di pubblico -
certamente non minoritario - c'è in quegli anni una
fiorente produzione di pièces gradevoli e brillanti,
generalmente impostate sulla casistica amorosa, con ruoli
che permettono di valorizzare le capacità della prima
attrice, l'ambiente è generalmente medio o alto borghese.
Si tratta di quello che è stato definito il teatro < delle
rose scarlatte e dei telefoni bianchi» (Maurri). Parecchi
gli autori e i testi di questo filone, che grazie anche
alla vivace bravura di attori famosi - Vittorio De Sica,
Sergio Tofano, Luigi Cimara, Evi Maltagliati, Dina Galli -
godette di notevole successo; ci limitano a ricordare: Due
dozzine di rose scarlatte (1932) di Aldo De Benedetti
(1892-97) e Trampoli (1935) di Sergio Pugliese (19081965).
Va però precisato che oggi parecchi studiosi di cose
teatrali sono propensi a dare su questa produzione un
giudizio meno drastico e liquidatorio di quello
precedentemente ricordato: certo, si tratta di un teatro
di evasione, "digestivo", ma parecchie pièces (quelle
citate ad esempio) son ben costruite e testimoniano un
buon livello di artigianato teatrale.
Ma nel panorama di quegli anni c'è posto - pur se
minoritario anche per la sperimentazíone, per la ricerca
di nuove modalità teatrali. Non ci pare azzardato
sostenere a questo punto che la vocazione ludica e la
destrutturazione della drammaturgia tradizionale tipiche
della poetica futurista trovano un po' più tardi
realizzazioni felici nelle "tragedie in due battute" che
ACI-ALLE CAMPANILE (1900-1977) fece rappresentare nel 1924
al Teatro degli Indipendenti di Roma, luogo deputato,
sotto la guida di Anton Giulio Bragaglia, di ricerca e
sperimentazione teatrale. Ecco un esempio:
La maliarda e i viziosi
IL PRIMO SIGNORE: E che fa la tale?
IL SECONDO SIGNORE: Si dice che seduce sedici sudici
sadici.
Edipo a Colono
UN MESSO: C'è Edipo?
UNA SENTINELLA: No, è a Colono.
Qualcuno ha parlato di Campanile come di un precursore di
lonesco e di Beckett e del loro teatro dell'assurdo. Si
tratta certamente di una valutazione assai discutibile,
che non tiene conto della componente di gioco, di
divertissement che è prioritaria in Campanile, del suo
«lavoro di guastatore [...] che è concentrato su degli
intoppi minuscoli, una parola, un aggettivo, un'inerzia
che però mettono in crisi la solida costruzione apparente
della norma» (Bo).
Anche in ambito teatrale si fa sentire - o cerca di farsi
sentire - la politica culturale del regime, che
attribuisce importanza a questa attività concependola -
insieme alla radio e al cinema - come un efficace
strumento di persuasione di massa. Ma testi teatrali in
linea con le idealità fasciste non ce n'erano. Giova a
questo punto ricordare un episodio che fu in quei tempi
assai significativo e che tale rimane anche in una
prospettiva storica. Il 28 aprile 1933 Mussolini in un
discorso al teatro Argentina a Roma aveva auspicato il
sorgere di un teatro di masse e proclamato: «L'opera
teatrale deve avere il largo respiro che il popolo le
chiede. Essa deve agitare le grandi passioni collettive
[...]. Fate che le passioni collettive abbiano espressione
drammatica, e voi vedrete allora le platee affollarsi».
Scrive a questo proposito A. Antonucci: «Un impegno e una
dichiarazione così espliciti furono prontamente accolti.
Un gruppo di giovani autori (Luigi Bonelli, Sandro De Feo,
Gherardo Gherardi, Nicola Lisi, Raffaello Melani, Corrado
Sofia, Giorgio Venturini) ideò, per la regia di Alessandro
Blasetti, uno spettacolo -kolossal, 18 BL, che avrebbe
dovuto rappresentare una sorta di modello di teatro
fascista. Si trattava di una propagandistica rievocazione,
interpretata da un solo protagonista e da diverse
centinaia di figuranti, delle vicende del camion BL,
inizialmente usato nella prima guerra mondiale, poi
sfruttato durante la marcia su Roma e, infine, impiegato
per le bonifiche. Rappresentato all'Albereta dell'Isolotto
di Firenze il 29 aprile 1934, lo spettacolo cadde
clamorosamente, fra la noia e la delusione dell'imponente
pubblico. "Il teatro di masse" era morto e sepolto ancora
prima di nascere, non solo sul piano estetico quanto su
quello strettamente ideologico».
Altrettanto morti sono da considerare - e ne parliamo qui
come di curiosità culturali - alcuni testi di Giovacchino
Forzano (1884-1970), che dalle iniziali divertenti
commedie passò al ruolo di drammaturgo del fascismo con
Villafranca (1931), Campo di maggio (1930) e - addirittura
con la collaborazione di Mussolini - Giulio Cesare (1940);
o i tre testi che Vitaliano Brancati scrisse tra il 1928 e
il 1932 (li avrebbe poi ripudiati): «nell'ordine: Fedor,
Everest, Piave [...]; nel terzo tra i personaggi erano un
"primo" e un secondo "sergente" che, all'ultima battuta,
si scopre essere nientemeno che Mussolini. Per qual
distrazione Brancati abbia promosso a sergente Mussolini,
mentre in tutt'Italia se ne esaltava, per così dire, la "caporalità"
non sappiamo. Il dramma comunque fu premiato e, a quanto
pare, rappresentato» (Sciascia).
C'è però, all'interno del panorama sinora delineato, un
autore sul quale è opportuno soffermarsi. È anzi doveroso,
perché - malgrado la sua lunga attività di drammaturgo
(dal 1926 al 1951), la sua ricca produzione e il successo
di qualche sua pièce - non ha ancora ricevuto il
riconoscimento che gli compete o meglio non è ancora
entrato nel comune patrimonio culturale. Si tratta di Ugo
Betti (1892-1953), autore di circa una ventina di testi
teatrali, che agli inizi si concede anche qualche evasione
nel mondo del sogno e della fiaba (L'isola meravigliosa,
1929) ma con Frana allo Scalo Nord (1932) imbocca una
nuova strada, che verrà perseguita con parecchie opere
posteriori e che trova le sue realizzazioni esemplari in
Ispezione (1942) e in Corruzione al Palazzo di Giustizia
(1944). Sono queste tre le opere sulle quali richiamiamo
l'attenzione, sia perché legate fra di loro da modalità
strutturali e da tematiche comuni, sia perché
rappresentano i risultati più alti raggiunti da Betti per
ormai acquisito giudizio critico (nell'ultimo decennio la
critica ha dimostrato finalmente interesse per Betti:
basti pensare al Convegno Internazionale svoltosi a Roma
nel 1980 e al denso volume di contributi edito
dall'Istituto di Studi Pirandelliani).
La modalità strutturale comune ai tre testi citati è
costituita dal loro "impianto giudiziario": c'è un topos
ricorrente, cioè un "ispettore", un magistrato che indaga,
cerca di far luce su una situazione (privata in Ispezione,
pubblica in Frana allo Scalo Nord e Corruzione al Palazzo
di Giustizia). Al di là dell'ovvio riferimento
all'esperienza biografica di Betti (fu per molti anni
magistrato), c'è da sottolineare che questo impianto è
molto congeniale a un autore che sente particolarmente il
problema della responsabilità dell'uomo, del significato
del suo destino, dell'autenticità o della mistificazione
dei suoi sentimenti. Sono queste le tematiche di tanto
teatro di Berti e particolarmente delle tre pièces citate.
Non si pensi però, per la presenza dell'"ispettore", a un
ritmo drammaturgico da giallo, poliziesco:
«l'investigatore-giudice resta estraneo all'azione vera e
propria e costituisce, perciò, solo formalmente un
elemento di antitesi ai personaggi; l'idea di giustizia
che egli incarna è già sufficiente a produrre un movimento
nuovo nello sviluppo dei dialoghi e a conferire all'opera
intera una lucida ossatura» (Pullini). E questo sviluppo
mette via via in luce universi sociali e universi
interiori, la società moderna con i suoi inesorabili
meccanismi e l'uomo di oggi che li subisce e ne è succubo:
« la scena si trasforma in un banco d'accusa della società
contemporanea: i personaggi si mettono di fronte alla
propria coscienza e ne registrano i movimenti con una
severa introspezione; diventano essi i giudici di se
stessi, giudici imparziali e irremissibili. Affrontano la
disamina del proprio passato, analizzano il presente,
scelgono il loro atteggiamento in base alla colpevolezza
individuata o cedono di fronte alla difficoltà di trovare
una soluzione positiva» (Pullini). È facile intuire come
da un impianto e da un'analisi del genere non possa che
derivare un affresco pessimistico della società e della
condizione umana: dietro alle routinesche abitudini della
vita familiare si celano - e Betti, via via che la pièce
procede, la porta inesorabilmente alla luce - la finzione,
la malvagità, l'interesse; nei palazzi di giustizia
agiscono «uomini che sono dei veri ragni, ciò che li regge
è appunto una ragnatela di relazioni che essi tessono
abilmente» (così si esprime un personaggio di Corruzione).
E tuttavia questo pessimismo non è definitivo, qualcosa lo
incrina: un albeggiare di speranza, di fiducia nell'essere
umano, una (quasi religiosa) attesa della positività. Dopo
il successo della prima (gennaio 1949) di Corruzione al
Palazzo di Giustizia «uno dei capolavori del teatro
italiano del Novecento, un testo assai più coinvolgente
oggi di quando fu rappresentato la prima volta», ha
scritto alla fine del 1993 Giovanni Antonucci-Betti ha
chiarito questa componente della sua ideologia (presente
d'altra parte anche in Frana allo Scalo Nord) dichiarando
che quel suo lavoro «significa e rappresenta questo: che
pur apparentemente trionfando la corruzione, pur
schierandosi a favore della corruzione l'accomodantismo
della giustizia umana, il servilismo degli uomini,
l'indifferenza della natura, e persino l'idea "comoda" che
gli uomini si fanno di Dio, nonostante tutto ciò finisce
per trionfare misteriosamente in fondo all'animo umano
l'esigenza insopprimibile della giustizia e dell'assoluto.
Sicché alla fine è proprio il colpevole che va a
denunciarsi spontaneamente, e proprio quando gli è stata
assicurata una trionfante impunità».
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