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Opera autobiografica pubblicata nei "Quaderni della Voce".
È forse il più complesso dei libri di Papini giovane, e
con esso si conclude il primo periodo della sua attività.
Da una fanciullezza solitaria e pensosa (unico spiraglio
di luce sono le lunghe passeggiate col babbo in campagna,
nella "sua campagna" toscana che resterà sempre il
fondamento dell'anima dello scrittore), da un'adolescenza
grigia, tormentosa, di sogni e passata sui libri e fra le
mura di una biblioteca, si giunge a una giovinezza,
rivoluzionaria e combattiva. Sono i tempi del "Leonardo":
i giovani si raggruppano, fondano, con pochi mezzi e molto
lavoro, un giornale che sarà il messaggero delle loro
idee. Poi la delusione del sogno fatto concreto. Non basta
vedere il proprio nome stampato su una rivista, non basta
stampare libri. Noti così si possono cambiare gli uomini.
L'anima inquieta e geniale dell'autore avverte un bisogno
di rinnovamento. Sogna addirittura di iniziare una nuova
"egira" per gli uomini. L'era dell'Uomo-Dio, contrapposta
a quella dell'Uomo-bestia. Bisogna per questo migliorare
prima di tutto sé stesso, acquistare la potenza, strumento
necessario per convincere gli uomini a essere simili a
Dio; e l'autore si volge alla magia e alla taumaturgia
indiana. Ma il mezzo lo conquista completamente facendogli
dimenticare il fine. Si ritira a vivere, nuovo Zarathustra,
nella solitudine montana. E poi il precipizio, il
fallimento, "Non riuscii, scrive, perché non volli
abbastanza fortemente". Il ritorno alla vita di tutti i
giorni, alla carta stampata, alla gloria degli uomini, gli
riempie la bocca di amaro e di disgusto. La sua natura di
negatore ha il sopravvento. "Divenni una specie di Gorgia
da caffè che per vendicarsi della certezza perduta e della
superbia fiaccata si divertiva a dissolvere e a fiaccare
le fedi degli altri". "Eppure, scriverà dopo, sento ancora
in me una gran voglia di vivere. Non voglio morire. Io
voglio proprio questa mia vita disgraziata scontenta,
malinconica triste, questa mia vita dolorosa. Ch'io veda
il cielo anche da mezza finestra - pur ch'io senta cantare
un uccello la mattina a primavera, pur ch'io veda ridere
un bambino e una donna, pur ch'io possa seguire
l'irrequieta ombra di un albero sul muro imbiancato dalla
luna d'agosto". È il ritorno alla terra - alla Toscana di
cui Papini è figlio. "Non sono finito - e il titolo di
questo libro è sbagliato. Poco male. Qui dentro c'è un
uomo ch'è disposto a vender cara la sua pelle, che vuol
finire più tardi sia possibile". Così scrive Papini
nell'ultimo capitolo dedicato ai giovani della nuova
generazione, della quale, benché poco più che trentenne,
sente già di non far parte. Mai, forse, l'autore è stato
più sincero; e per questa sincerità di stile, che si
rivela anche nella prosa di una toscanità ricca e
brillante, il libro ha un valore non solo autobiografico.
Accenti di profonda poesia egli trova tutte le volte che
nel descrivere uno stato d'animo interiore si porta a
parlare della Toscana, con la campagna, i ponti sull'Arno
e le intense note paesistiche: e nella concitazione del
discorso, non di rado artificiosa e volutamente estrema,
queste sono le pagine più durevoli e sincere. |