Analisi opere di Giovanni Papini

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Parliamo di

  Letteratura italiana del Novecento
Autore recensione
Raffaele
De Grada

 


Un uomo finito
 

Opera autobiografica pubblicata nei "Quaderni della Voce". È forse il più complesso dei libri di Papini giovane, e con esso si conclude il primo periodo della sua attività. Da una fanciullezza solitaria e pensosa (unico spiraglio di luce sono le lunghe passeggiate col babbo in campagna, nella "sua campagna" toscana che resterà sempre il fondamento dell'anima dello scrittore), da un'adolescenza grigia, tormentosa, di sogni e passata sui libri e fra le mura di una biblioteca, si giunge a una giovinezza, rivoluzionaria e combattiva. Sono i tempi del "Leonardo": i giovani si raggruppano, fondano, con pochi mezzi e molto lavoro, un giornale che sarà il messaggero delle loro idee. Poi la delusione del sogno fatto concreto. Non basta vedere il proprio nome stampato su una rivista, non basta stampare libri. Noti così si possono cambiare gli uomini. L'anima inquieta e geniale dell'autore avverte un bisogno di rinnovamento. Sogna addirittura di iniziare una nuova "egira" per gli uomini. L'era dell'Uomo-Dio, contrapposta a quella dell'Uomo-bestia. Bisogna per questo migliorare prima di tutto sé stesso, acquistare la potenza, strumento necessario per convincere gli uomini a essere simili a Dio; e l'autore si volge alla magia e alla taumaturgia indiana. Ma il mezzo lo conquista completamente facendogli dimenticare il fine. Si ritira a vivere, nuovo Zarathustra, nella solitudine montana. E poi il precipizio, il fallimento, "Non riuscii, scrive, perché non volli abbastanza fortemente". Il ritorno alla vita di tutti i giorni, alla carta stampata, alla gloria degli uomini, gli riempie la bocca di amaro e di disgusto. La sua natura di negatore ha il sopravvento. "Divenni una specie di Gorgia da caffè che per vendicarsi della certezza perduta e della superbia fiaccata si divertiva a dissolvere e a fiaccare le fedi degli altri". "Eppure, scriverà dopo, sento ancora in me una gran voglia di vivere. Non voglio morire. Io voglio proprio questa mia vita disgraziata scontenta, malinconica triste, questa mia vita dolorosa. Ch'io veda il cielo anche da mezza finestra - pur ch'io senta cantare un uccello la mattina a primavera, pur ch'io veda ridere un bambino e una donna, pur ch'io possa seguire l'irrequieta ombra di un albero sul muro imbiancato dalla luna d'agosto". È il ritorno alla terra - alla Toscana di cui Papini è figlio. "Non sono finito - e il titolo di questo libro è sbagliato. Poco male. Qui dentro c'è un uomo ch'è disposto a vender cara la sua pelle, che vuol finire più tardi sia possibile". Così scrive Papini nell'ultimo capitolo dedicato ai giovani della nuova generazione, della quale, benché poco più che trentenne, sente già di non far parte. Mai, forse, l'autore è stato più sincero; e per questa sincerità di stile, che si rivela anche nella prosa di una toscanità ricca e brillante, il libro ha un valore non solo autobiografico. Accenti di profonda poesia egli trova tutte le volte che nel descrivere uno stato d'animo interiore si porta a parlare della Toscana, con la campagna, i ponti sull'Arno e le intense note paesistiche: e nella concitazione del discorso, non di rado artificiosa e volutamente estrema, queste sono le pagine più durevoli e sincere.

 

Luigi De Bellis