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LE ORIGINI DELLA
LETTERATURA
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JACOPONE DA TODI: Il pianto
della Madonna
Lauda, forse dei suoi ultimi
anni, e suo capolavoro. È
conosciuta anche sotto il titolo
Donna del Paradiso. In quella
ruvida e schematica, ma viva,
tragica contemplazione trova
ordine e liberazione l'impeto
del sentimento religioso di
Jacopone. Tutta la lirica è
concentrata sulla figura della
Madonna, che come una madre
mortale è in pena, poi ancora
spera, infine s'abbandona al suo
funebre pianto; sulla figura di
Cristo, che umanamente si
affligge del dolore materno, su
quella del Nunzio, nelle cui
parole risuona il tumulto della
Passione. Nella prima parte
della lauda è la concitazione
degli avvenimenti che, nella
descrizione duramente ritmata
del Nunzio, echeggiano con
terribile evidenza. Nella
seconda parte la Madonna
abbandona ogni tentativo e
speranza e comincia "el
corrotto", il suo pianto e il
colloquio col Figlio con così
insistente invocazione ("Figlio
de mamma scura... Figlio bianco
e vermiglio, - figlio, senza
simiglio... Figlio bianco e
biondo, - figlio volto iocondo...
Figlio, dolce e piacente, -
figlio de la dolente...") che
pare una nenia di pietosa
follia. La lauda si chiude
potentemente col grido di Maria
a Giovanni, "figlio novello":
"morto è lo tuo fratello, -
sentito aggio 'l coltello - che
fo profetizzato". Tutta la
rimeria dei laudari, povera,
rozza, scarna, benché spesso
colorita da tratti ingenuamente
affettuosi, è riscattata dalla
rude originalità di questo canto
inebriato di passione e di
pietà.
Francesco
Pastonchi
JACOPONE DA TODI - Laudi
Sono nella stampa fiorentina del
1490 un centinaio, di cui
autentiche si posson dire con
certezza novantatré: a queste
pare che ben poche altre se ne
possano aggiungere delle molte
attribuite al Beato umbro (1230
circa-1306) ed escluse da
quell'antica edizione, che ci
offre perciò, in mancanza di una
moderna edizione critica, una
raccolta pressoché compiuta e
sufficientemente sicura delle
liriche jacoponiane.
Questa raccolta si distingue
nettamente dai laudari
contemporanei, voci di una
religiosità collettiva,
caratteristicamente popolari nel
contenuto e nella forma: ché
Jacopone, ben lungi dall'essere,
come parve un tempo, il
"giullare di Dio" che al fa
interprete dei sentimenti della
folla nelle sue laudi (o "laude")
composte per il popolo, è, a suo
modo, poeta d'arte dotato di una
cultura letteraria e, quel che
più importa, uno spirito di
eccezione, che ha vissuto una
sua esperienza religiosa e
quell'esperienza ha fatto
materia delle sue liriche.
Anch'egli, non diversamente da
quel più umili autori di laudi,
non mirava propriamente alla
poesia, e componeva le sue, come
scrisse l'editore
quattrocentesco, "per utilità e
consolazione di coloro che
desiderano per via di Croce e
delle virtù seguitare el
Signore", sia che si facesse
ammonitore e riprensore dei suoi
simili, sia che tentasse di
trasportare nel verso la propria
esperienza di mistico. Le laudi
tendono perciò ora a un tono
nettamente didascalico ("Or
vedete", "Oh guarda", "pensa" è
l'ammonimento insistente che in
esse risuona), ora
all'appassionata invettiva,
infine all'espressione
sovrabbondante e tumultuosa
propria di una "smisuranza"
d'affetto che ignora, e vuole
ignorare, la misura della
poesia. Ma se di rado la
passione di Jacopone si purifica
e si placa nel canto sereno,
essa trova nella sua violenza
una espressione inconfondibile,
e, per dir così, tutta balenante
di poesia, che fa di queste
laudi un'opera unica della
nostra letteratura.
Odio e amore, odio di se
medesimo e amore di Dio, sono i
termini opposti, nei quali
l'ardente frate vede riassunta
la sua esperienza e la svia
"filosofia": e odio e amore,
parimenti esclusivi e parimenti
estremi, informano di sé la
maggior parte delle sue laudi.
Seguace di san Francesco e
militante fra gli Spirituali,
propugnatori della più stretta
osservanza della regola
francescana, Jacopone fa propria
la volontà della sofferenza
nella quale sola l'anima può
trovare la "perfetta letizia",
ma, ignaro della superiore
serenità del Maestro, esaspera
quella volontà in una brama non
saziata di umiliazione,
nell'"odio" di se medesimo, che
diventa ben più della "perfetta
letizia" il tema della sua
meditazione, anzi della sua
vita. Quell'odio gli fa
invocare, in un ardore di
purificazione, mali su mali ("Oh
Signor per cortesia, mandami la
malsania!") e gli ispira in
mezzo all'orrore del carcere in
cui il suo grande avversario,
Bonifacio VIII, l'ha gettato, il
grido di trionfo e di scherno
per i propri dolori e la propria
umiliazione: "O mirabil odio mio
d'onne pena hai signorìo, -
Nullo recepi ingiurio: vergogna
t'è esaltazione... Questa pena
che m'è data trent'anni è che
l'aggio amata: - Or è gionta la
giornata d'esta consolazione...
Fama mia t'aracomando al somier
che va ragliando...". Né un tale
odio, s'intende, si può limitare
alla sua particolare persona, ma
investe tutta l'umana natura,
inferma e peccaminosa, che le
laudi non si stancano di
rivelare nelle sue brutture
fisiche e morali con
sottigliezza psicologica, con
immagini crudamente realistiche,
con un'ironia volutamente rude e
grossolana.
Quasi ossessionato dal male che
sente in sé e in altrui, come
potrebbe un tale spirito usare
moderazione di fronte ai propri
avversari, ai francescani
degeneri, ai prelati politici e
mondani, a Bonifacio VIII, il
pontefice che egli non ha voluto
riconoscere e che l'ha
scomunicato?
L'invettiva gli esce terribile
dalla penna ("Fansi chiamare
Ecclesiale membra
d'Anticristo"), e sarcastica
suona l'epistola di sfida e di
minaccia al pontefice: "O papa
Bonlfazio molto hai iocato al
mondo: - Penso che giocondo non
te porrai partire". In tanto
accanimento contro se medesimo,
contro i suoi nemici, contro il
mondo, Jacopone è afferrato di
quando in quando da un'angoscia
senza nome: l'ironia e il
sarcasmo si tramutano nella
constatazione desolata ("O vita
penosa continua battaglia - Con
quanta travaglia la vita è
menata... Non è nel mondo cosa
che piaccia - E questa traccia
non è mai finita"), e
l'invettiva contro gli avversari
nel pianto della Chiesa
derelitta ("Piange la Ecclesia,
piange e dolura - Sente fortura
di pessimo stato.... O'son li
patri pieni di fede?... O'son li
profeti pieni di speranza?...
O'son gli apostoli pieni di
fervore?..."), e nella paurosa
rappresentazione del male
trionfante ("Or se parrà chi
averà fidanza. -
La tribulanza ch'è profetizzata
- Da onne lato vegiola tuonare.
- La luna è scura, el sole
ottenebrato - Le stelle del
cielo veggio cadere... O sire
Dio, chi porrà scampare?....
L'acque del diluvio son salute,
- Coperti i monti, sommersa onne
cosa - Aiuta, Dio, aiuta lo
notare!"): in simili momenti gli
si levava dal cuore l'immagine
del Giudizio Universale,
dell'anima che dà al corpo
l'annuncio tremendo ("O corpo
enfracedato io so l'anima
dolente: - Lievate amantenente
ché sei meco dannato - L'agnolo
sta a trombare voce de gran
paura"), dello sgomento del
risorto di fronte a Dio
giudicante: "Chi è questo gran
sire rege de grande altura? -
Sotterra vorria gire tal me
mette paura; - Ove porria fugire
da la sua faccia dura? - Terra,
fa copretura! ch'io nol veggia
adirato". Ma Jacopone è anche il
poeta dell'amore, dell'amore di
Dio, nel quale la persona umana
trova a un punto l'esaltazione e
l'annichilimento ("l'alta
nichilitade") e che gli infonde
nell'animo ora un'ebbrezza senza
pari, ora un pauroso sgomento.
Sorge così il breve canto: "O
iubilo del core che fai cantar
d'amore" e la lauda amplissima
"Amor de caritate", che ben
rende l'anelito dell'anima a
confondersi nella divinità
("Amor de caritate perché m'hai
sì ferito? - Lo cor tutt'ho
partito ed arde per amore....
Jesù speranza mia abissame en
amore"): ne nasce una delle cose
più delicate e poetiche di
Jacopone, il pianto dell'anima
invocante invano l'amore del suo
Dio ("Piangi dolente anima
predata...") e l'originalissimo
contrasto: "De la diversità de
contemplazione de Croce" nel
quale i due "frati", ebbro l'uno
di santa letizia, sgomento
l'altra e quasi disfatto per la
contemplazione della Croce,
danno voce al dramma mistico di
Jacopone nelle sue alternative
di desiderio e di paura, della
prima letizia e del finale
smarrimento dell'abbandono
amoroso. Ma in nessuna lauda
forse l'incontro dell'uomo con
Dio, nelle sue opposte note di
esaltazione e di sgomento, è
reso in forma più sensibile e
potente che nei versi della
lauda "De la Beata Vergine
Maria": "O Maria co facivi
quando tu lo vidivi? - Or co non
te morivi de l'amore afocata? -
Co non te consumavi quando tu lo
guardavi - Ché Dio ce
contemplavi en quella carne
velata?...": tutt'altro accento
avrà questo motivo quando sarà
ripreso nella ballata di
Giovanni Dominici (1356- 1419):
"Dì Maria dolce con quanto desio
- Miravi il tuo figliuol Cristo
mio Dio", che fu un tempo
attribuita a Jacopone, ma che
nella sua semplice umanità è
così lontana dall'ebbrezza
mistica della lauda del todino.
La parola di Jacopone è sempre
parola declamata, improntata
dall'ardore di un'anima che si
rivolge a un interlocutore, e
spontaneamente tende alla forma
del contrasto, al dramma, nel
quale l'animo tormentato del
frate può esprimere meglio la
piena del suo affetto. Anche la
materia più astratta, come il
mistero della Redenzione,
assumeva forma drammatica nella
mente di Jacopone. Si può dire
che quella forma, a cui non è
stato estraneo l'esempio della
poesia profana, fosse la forma
naturale del suo spirito. Non
può perciò fare meraviglia il
trovare fra tanti contrasti un
vero e proprio dramma, la lauda
"Donna del Paradiso", conosciuta
anche come "Pianto della
Madonna", che è il sito
capolavoro, l'opera nella quale
la sua poesia, balenante nelle
altre laude in sentenze, in
immagini, in motivi singoli, può
manifestarsi in una forma
compiuta. Ché nel dramma della
Passione, da lui reso con scorci
audacissimi e con mirabile
densità di accenti, egli ha
ritrovato tutti i motivi della
sua meditazione e della sua
poesia: l'angoscia per il male
del mondo e la volontà
esasperata di sofferenza, che
gli ispirano la rappresentazione
del popolo imbestiato e la lenta
e crudele descrizione della
crocifissione, l'amore infinito
di Maria, che dal dolore trae
nuova fiamma, l'altezza
incommensurabile di Cristo,
sollevato anche nella Passione
al disopra dell'umano tumulto e
dello stesso dolore della Madre.
Mario
Fubini
La poesia in Jacopone è realtà
ancora naturale, non ancora
spiritualizzata dall'arte; è
materia greggia, tutta discorde,
che li dà alcuni tratti
bellissimi, niente di finito e
di armonico. (De
Sanctis).
Quanta allegrezza è nel Cantico
tanto le Laudi sono percorse da
un turbinoso spavento. Il
tremore caldo dell'adorazione
francescana, in Jacopone è
diventato spasimo. (M.
Bontempelli)
JACOPONE DA TODI - Stabat mater
Inno, quasi con certezza, di
Jacopone da Todi, degli ultimi
anni del frate (1230
circa-1300). Come il Dies irae,
lo Stabat si riallaccia a una
tradizione di motivi e di ritmi
similari, ma perduti e riassunti
in una creazione vigorosamente
originale. È composto di due
coppie di ottonari rimati,
seguita ciascuna da un senario
sdrucciolo, e i due senari sono
legati tra loro da un'assonanza.
Il fraticello (e ogni fedele
anima con lui) contempla colmo
d'angoscia il materno patimento
della Vergine e, pieno di
lagrime, esce in un'orazione
appassionata, in cui invoca su
di sé i tormenti dell'Uomo
Crocifisso: "Fac me plagis
vulnerari, - fac me cruce
inebriari...". E infine si placa
nella speranza del premio
celeste: "Quando corpus morietur
- fac ut animae donetur -
paradisi gloria". Inno così
semplice in quel suo popolare
latino che, diceva l'Ozanam, le
donne e i fanciulli lo intendono
mezzo per le parole, e mezzo per
il canto e per l'affetto. Lo
volgarizzò Franco Sacchetti, che
ne credeva autore Gregorio
Magno.
Francesco
Pastonchi
Jacopone riflette la vita
italiana sotto uno de' suoi
aspetti con assai più di
sincerità e di verità che non
trovi in nessun trovatore. È il
sentimento religioso nella sua
prima e natia espressione, come
si rivela nelle classi inculte,
senza nube di teologia e di
scolasticismo e portato sino al
misticismo e all'estasi. (De
Sanctis).
Se lo Stabat è veramente di
Jacopone, come oggi par certo,
fu un suo canto di supremo
riposo. (F.
Flora).
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Daniele Mattalia |
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