IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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La lirica d'arte in Italia
Il tema d'amore nella poesia medievale
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LE ORIGINI DELLA LETTERATURA

JACOPONE DA TODI: Il pianto della Madonna

 

Lauda, forse dei suoi ultimi anni, e suo capolavoro. È conosciuta anche sotto il titolo Donna del Paradiso. In quella ruvida e schematica, ma viva, tragica contemplazione trova ordine e liberazione l'impeto del sentimento religioso di Jacopone. Tutta la lirica è concentrata sulla figura della Madonna, che come una madre mortale è in pena, poi ancora spera, infine s'abbandona al suo funebre pianto; sulla figura di Cristo, che umanamente si affligge del dolore materno, su quella del Nunzio, nelle cui parole risuona il tumulto della Passione. Nella prima parte della lauda è la concitazione degli avvenimenti che, nella descrizione duramente ritmata del Nunzio, echeggiano con terribile evidenza. Nella seconda parte la Madonna abbandona ogni tentativo e speranza e comincia "el corrotto", il suo pianto e il colloquio col Figlio con così insistente invocazione ("Figlio de mamma scura... Figlio bianco e vermiglio, - figlio, senza simiglio... Figlio bianco e biondo, - figlio volto iocondo... Figlio, dolce e piacente, - figlio de la dolente...") che pare una nenia di pietosa follia. La lauda si chiude potentemente col grido di Maria a Giovanni, "figlio novello": "morto è lo tuo fratello, - sentito aggio 'l coltello - che fo profetizzato". Tutta la rimeria dei laudari, povera, rozza, scarna, benché spesso colorita da tratti ingenuamente affettuosi, è riscattata dalla rude originalità di questo canto inebriato di passione e di pietà.
Francesco Pastonchi


JACOPONE DA TODI - Laudi

Sono nella stampa fiorentina del 1490 un centinaio, di cui autentiche si posson dire con certezza novantatré: a queste pare che ben poche altre se ne possano aggiungere delle molte attribuite al Beato umbro (1230 circa-1306) ed escluse da quell'antica edizione, che ci offre perciò, in mancanza di una moderna edizione critica, una raccolta pressoché compiuta e sufficientemente sicura delle liriche jacoponiane.
Questa raccolta si distingue nettamente dai laudari contemporanei, voci di una religiosità collettiva, caratteristicamente popolari nel contenuto e nella forma: ché Jacopone, ben lungi dall'essere, come parve un tempo, il "giullare di Dio" che al fa interprete dei sentimenti della folla nelle sue laudi (o "laude") composte per il popolo, è, a suo modo, poeta d'arte dotato di una cultura letteraria e, quel che più importa, uno spirito di eccezione, che ha vissuto una sua esperienza religiosa e quell'esperienza ha fatto materia delle sue liriche. Anch'egli, non diversamente da quel più umili autori di laudi, non mirava propriamente alla poesia, e componeva le sue, come scrisse l'editore quattrocentesco, "per utilità e consolazione di coloro che desiderano per via di Croce e delle virtù seguitare el Signore", sia che si facesse ammonitore e riprensore dei suoi simili, sia che tentasse di trasportare nel verso la propria esperienza di mistico. Le laudi tendono perciò ora a un tono nettamente didascalico ("Or vedete", "Oh guarda", "pensa" è l'ammonimento insistente che in esse risuona), ora all'appassionata invettiva, infine all'espressione sovrabbondante e tumultuosa propria di una "smisuranza" d'affetto che ignora, e vuole ignorare, la misura della poesia. Ma se di rado la passione di Jacopone si purifica e si placa nel canto sereno, essa trova nella sua violenza una espressione inconfondibile, e, per dir così, tutta balenante di poesia, che fa di queste laudi un'opera unica della nostra letteratura.
Odio e amore, odio di se medesimo e amore di Dio, sono i termini opposti, nei quali l'ardente frate vede riassunta la sua esperienza e la svia "filosofia": e odio e amore, parimenti esclusivi e parimenti estremi, informano di sé la maggior parte delle sue laudi. Seguace di san Francesco e militante fra gli Spirituali, propugnatori della più stretta osservanza della regola francescana, Jacopone fa propria la volontà della sofferenza nella quale sola l'anima può trovare la "perfetta letizia", ma, ignaro della superiore serenità del Maestro, esaspera quella volontà in una brama non saziata di umiliazione, nell'"odio" di se medesimo, che diventa ben più della "perfetta letizia" il tema della sua meditazione, anzi della sua vita. Quell'odio gli fa invocare, in un ardore di purificazione, mali su mali ("Oh Signor per cortesia, mandami la malsania!") e gli ispira in mezzo all'orrore del carcere in cui il suo grande avversario, Bonifacio VIII, l'ha gettato, il grido di trionfo e di scherno per i propri dolori e la propria umiliazione: "O mirabil odio mio d'onne pena hai signorìo, - Nullo recepi ingiurio: vergogna t'è esaltazione... Questa pena che m'è data trent'anni è che l'aggio amata: - Or è gionta la giornata d'esta consolazione... Fama mia t'aracomando al somier che va ragliando...". Né un tale odio, s'intende, si può limitare alla sua particolare persona, ma investe tutta l'umana natura, inferma e peccaminosa, che le laudi non si stancano di rivelare nelle sue brutture fisiche e morali con sottigliezza psicologica, con immagini crudamente realistiche, con un'ironia volutamente rude e grossolana.
Quasi ossessionato dal male che sente in sé e in altrui, come potrebbe un tale spirito usare moderazione di fronte ai propri avversari, ai francescani degeneri, ai prelati politici e mondani, a Bonifacio VIII, il pontefice che egli non ha voluto riconoscere e che l'ha scomunicato?
L'invettiva gli esce terribile dalla penna ("Fansi chiamare Ecclesiale membra d'Anticristo"), e sarcastica suona l'epistola di sfida e di minaccia al pontefice: "O papa Bonlfazio molto hai iocato al mondo: - Penso che giocondo non te porrai partire". In tanto accanimento contro se medesimo, contro i suoi nemici, contro il mondo, Jacopone è afferrato di quando in quando da un'angoscia senza nome: l'ironia e il sarcasmo si tramutano nella constatazione desolata ("O vita penosa continua battaglia - Con quanta travaglia la vita è menata... Non è nel mondo cosa che piaccia - E questa traccia non è mai finita"), e l'invettiva contro gli avversari nel pianto della Chiesa derelitta ("Piange la Ecclesia, piange e dolura - Sente fortura di pessimo stato.... O'son li patri pieni di fede?... O'son li profeti pieni di speranza?... O'son gli apostoli pieni di fervore?..."), e nella paurosa rappresentazione del male trionfante ("Or se parrà chi averà fidanza. -
La tribulanza ch'è profetizzata - Da onne lato vegiola tuonare. - La luna è scura, el sole ottenebrato - Le stelle del cielo veggio cadere... O sire Dio, chi porrà scampare?.... L'acque del diluvio son salute, - Coperti i monti, sommersa onne cosa - Aiuta, Dio, aiuta lo notare!"): in simili momenti gli si levava dal cuore l'immagine del Giudizio Universale, dell'anima che dà al corpo l'annuncio tremendo ("O corpo enfracedato io so l'anima dolente: - Lievate amantenente ché sei meco dannato - L'agnolo sta a trombare voce de gran paura"), dello sgomento del risorto di fronte a Dio giudicante: "Chi è questo gran sire rege de grande altura? - Sotterra vorria gire tal me mette paura; - Ove porria fugire da la sua faccia dura? - Terra, fa copretura! ch'io nol veggia adirato". Ma Jacopone è anche il poeta dell'amore, dell'amore di Dio, nel quale la persona umana trova a un punto l'esaltazione e l'annichilimento ("l'alta nichilitade") e che gli infonde nell'animo ora un'ebbrezza senza pari, ora un pauroso sgomento.
Sorge così il breve canto: "O iubilo del core che fai cantar d'amore" e la lauda amplissima "Amor de caritate", che ben rende l'anelito dell'anima a confondersi nella divinità ("Amor de caritate perché m'hai sì ferito? - Lo cor tutt'ho partito ed arde per amore.... Jesù speranza mia abissame en amore"): ne nasce una delle cose più delicate e poetiche di Jacopone, il pianto dell'anima invocante invano l'amore del suo Dio ("Piangi dolente anima predata...") e l'originalissimo contrasto: "De la diversità de contemplazione de Croce" nel quale i due "frati", ebbro l'uno di santa letizia, sgomento l'altra e quasi disfatto per la contemplazione della Croce, danno voce al dramma mistico di Jacopone nelle sue alternative di desiderio e di paura, della prima letizia e del finale smarrimento dell'abbandono amoroso. Ma in nessuna lauda forse l'incontro dell'uomo con Dio, nelle sue opposte note di esaltazione e di sgomento, è reso in forma più sensibile e potente che nei versi della lauda "De la Beata Vergine Maria": "O Maria co facivi quando tu lo vidivi? - Or co non te morivi de l'amore afocata? - Co non te consumavi quando tu lo guardavi - Ché Dio ce contemplavi en quella carne velata?...": tutt'altro accento avrà questo motivo quando sarà ripreso nella ballata di Giovanni Dominici (1356- 1419): "Dì Maria dolce con quanto desio - Miravi il tuo figliuol Cristo mio Dio", che fu un tempo attribuita a Jacopone, ma che nella sua semplice umanità è così lontana dall'ebbrezza mistica della lauda del todino. La parola di Jacopone è sempre parola declamata, improntata dall'ardore di un'anima che si rivolge a un interlocutore, e spontaneamente tende alla forma del contrasto, al dramma, nel quale l'animo tormentato del frate può esprimere meglio la piena del suo affetto. Anche la materia più astratta, come il mistero della Redenzione, assumeva forma drammatica nella mente di Jacopone. Si può dire che quella forma, a cui non è stato estraneo l'esempio della poesia profana, fosse la forma naturale del suo spirito. Non può perciò fare meraviglia il trovare fra tanti contrasti un vero e proprio dramma, la lauda "Donna del Paradiso", conosciuta anche come "Pianto della Madonna", che è il sito capolavoro, l'opera nella quale la sua poesia, balenante nelle altre laude in sentenze, in immagini, in motivi singoli, può manifestarsi in una forma compiuta. Ché nel dramma della Passione, da lui reso con scorci audacissimi e con mirabile densità di accenti, egli ha ritrovato tutti i motivi della sua meditazione e della sua poesia: l'angoscia per il male del mondo e la volontà esasperata di sofferenza, che gli ispirano la rappresentazione del popolo imbestiato e la lenta e crudele descrizione della crocifissione, l'amore infinito di Maria, che dal dolore trae nuova fiamma, l'altezza incommensurabile di Cristo, sollevato anche nella Passione al disopra dell'umano tumulto e dello stesso dolore della Madre.
Mario Fubini

La poesia in Jacopone è realtà ancora naturale, non ancora spiritualizzata dall'arte; è materia greggia, tutta discorde, che li dà alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico. (De Sanctis).

Quanta allegrezza è nel Cantico tanto le Laudi sono percorse da un turbinoso spavento. Il tremore caldo dell'adorazione francescana, in Jacopone è diventato spasimo. (M. Bontempelli)



JACOPONE DA TODI - Stabat mater

Inno, quasi con certezza, di Jacopone da Todi, degli ultimi anni del frate (1230 circa-1300). Come il Dies irae, lo Stabat si riallaccia a una tradizione di motivi e di ritmi similari, ma perduti e riassunti in una creazione vigorosamente originale. È composto di due coppie di ottonari rimati, seguita ciascuna da un senario sdrucciolo, e i due senari sono legati tra loro da un'assonanza. Il fraticello (e ogni fedele anima con lui) contempla colmo d'angoscia il materno patimento della Vergine e, pieno di lagrime, esce in un'orazione appassionata, in cui invoca su di sé i tormenti dell'Uomo Crocifisso: "Fac me plagis vulnerari, - fac me cruce inebriari...". E infine si placa nella speranza del premio celeste: "Quando corpus morietur - fac ut animae donetur - paradisi gloria". Inno così semplice in quel suo popolare latino che, diceva l'Ozanam, le donne e i fanciulli lo intendono mezzo per le parole, e mezzo per il canto e per l'affetto. Lo volgarizzò Franco Sacchetti, che ne credeva autore Gregorio Magno.
Francesco Pastonchi

Jacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. È il sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo e portato sino al misticismo e all'estasi. (De Sanctis).

Se lo Stabat è veramente di Jacopone, come oggi par certo, fu un suo canto di supremo riposo. (F. Flora).

Daniele Mattalia

© 2009 - Luigi De Bellis