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FRANCESCO PETRARCA
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AFRICA
È l'opera
cui Francesco Petrarca per lungo
tempo credé affidata la sua
fama: poema in nove libri di
esametri latini, che egli aveva
probabilmente disegnato in
dodici libri, come l'Eneide,
rimasto però lacunoso tra il
quarto e il quinto libro.
L'opera, immaginata il venerdì
santo del 1338 (o del 1339?)
errando per le selvette irrigue
della Valchiusa, stesa fra
quell'anno e il 1342 a Valchiusa
e a Selvapiana (Parma), e
lungamente rielaborata poi, gli
aveva, quantunque inedita,
procurato subito nome di gran
poeta, e spianato la via
all'incoronazione in Campidoglio
(8 aprile 1341). L'argomento
dell'Africa è il medesimo delle
Puniche di Silio Italico, che il
Petrarca tuttavia non conosceva.
Se non che questi, tutto preso
dalla figura di Scipione
l'Africano - l'"eroe perfetto"
della romanità, valoroso e
umano, realista e pio, semplice
e colto - e dal trionfo della
civiltà latina sulla barbarie
cartaginese, si limita
all'ultima fase della seconda
Punica che si chiude con la
sconfitta di Annibale a Zama.
Del poema si possono dare due
diverse valutazioni, secondo
l'aspetto sotto il quale viene
considerato. Dal lato artistico
l'Africa, nel complesso, non è
di sicuro un capolavoro; ma il
giudizio va alquanto
avvantaggiato su quello che ne
ha dato sinora la critica. Certo
la parte più propriamente
storico-eroica del poema cade
spesso in una scialba
verseggiatura, ora distesa ora
condensata, del racconto di
Livio, che, ridotto di prosa in
verso e talora amplificato, vi
perde la sua genuina epicità.
Certo molta parte del sogno di
Scipione, che è l'oggetto dei
primi due libri, costeggia
troppo da vicino l'alta prosa
platonica del cosiddetto Sogno
di Scipione di Cicerone. E con
ogni probabilità la lunga lacuna
fra il terzo e il quarto libro è
dovuta al fatto che il Petrarca
non si sentiva a suo agio nel
cantare di guerra guerreggiata.
Certo i personaggi principali,
Scipione e Annibale, sono, sotto
tale aspetto, scarsamente
delineati e posti in atto; l'uno
è troppo perfetto, l'altro, al
contrario, ma non senza qualche
giusta nota umana, troppo
barbaricamente "cartaginese".
Anche il latino - pur di tanto
più lucido ed espressivo del
solito latino medievale - non ha
una personalità artistica sua,
né si afferma concretamente
incisivo, tranne in qualche
fuggevole sprazzo dove la poesia
viene a stagliarsi quasi
metallicamente nella forma
("lenta per ambiguam fulgebat
Cinthia noctem - et coecis
radiabat aquis" I. VI). Ma
bisogna anche ammettere che, se
l'Africa difetta di "eroicità",
non è del tutto priva di altezza
epica, come si afferma. Il poema
infatti è tutto corso da una
sotterranea vena, che riesce qua
e là ad affiorare pur
artisticamente, animando
fuggevolmente la trama ora di
spunti comici, ora di un
nobilissimo senso dell'unità e
coerenza della storia, ora di
una profonda e disincantata
apprensione della caducità di
ogni cosa umana: cui si aggiunge
- e questo fu sempre
riconosciuto all'Africa - una
più intima liquidità elegiaca
che ci richiama nettamente il
poeta del Canzoniere. Né come
felici episodi singoli
andrebbero ricordati soltanto
l'appassionata rappresentazione
di Sofonisba e del suo
sventurato amore per Massinissa
(l. V), e il breve episodio
marittimo del morente Magone (l.
VI), del cui particolare valore
lo stesso Petrarca si rese
conto, dando di questi soli
brani copia agli amici. È da
aggiungere, dello stesso libro
VI, l'episodio, pensosamente
rievocato dalla prima guerra
punica, del delitto marino dei
Cartaginesi ai danni del duce
spartano Santippo. Sembra anzi
che ogni volta che la scena
torna sul mare - e l'Africa è in
un certo senso, il poema del
Mediterraneo naturistico e
storico - la vena del poeta si
rinfranchi, allargandosi nello
spazio e nel tempo, facendosi
più alta e umana. - Considerata
nella storia della cultura, ben
maggiore è il valore
dell'Africa, che, a ragione, fu
detta "il poema dell'Umanesimo",
e potrebbe più precisamente
dirsi il poema della romanità
quale il risorgente spirito
classico dei secoli XIV-XV,
ancora intimamente cristiano,
poteva ispirare: o, ancora, il
poema della conciliazione, del
sincretismo romano-cristiano
nella rinnovata classicità
umanistica. Poiché il Petrarca
non si contenta di narrare quel
grande episodio - che per lui è
il vertice provvidenziale della
storia di Roma, dove Dio si
pronuncia, dopo aver bilanciato
a lungo le sorti, a beneficio
dell'umanità a venire, per Roma
contro Cartagine, per la "fides"
romana contro la malafede punica
- ma trova modo di innestarvi,
con molta abilità tecnica, in
racconti, tutto il passato, in
sogni e divinazioni tutto il
futuro della storia romana,
riconosciuta come storia del
popolo perfetto già tutto
illuminato dalle quattro virtù
cardinali e preparato a
ricevere, col Cristianesimo, il
lume delle teologali. Così,
esaurita la materia liviana si
capisce come il Petrarca ci
rappresenti, tornanti per mare,
sull'alta tolda della nave, il
vittorioso Scipione con il suo
poeta, Ennio: la poesia e la
vita che colloquiano altamente
nel nome di Roma, e, aguzzando
gli occhi nel futuro, salutano
nel solitario di Valchiusa il
cantore ("Ennius alter", ma meno
rozzo e in più culti secoli
nato) della grande gesta.
L'Africa compie così un'ultima
funzione essenziale della
romanità, di cui il Petrarca
vuol essere, nei tempi bassi, ma
che "devono" risorgere, il
"poeta veltro".
L'Africa fu scritta in una
lingua e in uno stile che il
Petrarca non si curò minimamente
di approfondire, parendogli che
bastasse esemplarli sui modelli
classici... Fu il primo e il più
illustre inganno dell'Umanesimo.
(F. Flora).
Il Petrarca fu dunque un uomo
moderno per i suoi tempi non
solo dal punto di vista
politico, ma anche dal punto di
vista culturale. Egli fu il
primo animatore di quel vasto
movimento di idee che contribuì
ad accelerare il crollo
definitivo degli ideali
medievali e ad avviare una nuova
concezione di vita, che verrà
poi definita "umanesimo" perché
largamente attinta dal pensiero
degli antichi autori delle "Humanae
litterae".
Il Petrarca ha ancora il grande
merito di aver intuito che non
ci può essere vera cultura, non
ci può essere progresso
scientifico senza la possibilità
di condurre i propri studi
liberamente, senza la
disposizione a cercare nuove
avventure del pensiero e
dell'azione: la lezione degli
antichi è preziosa per chi sa
attingervi la capacita di andare
avanti; può invece divenire
opprimente e negatrice di ogni
progresso se la si vuole
considerare definitiva e
perfetta. Sotto questo aspetto
il Petrarca ci appare più
moderno anche di molti umanisti
che vennero dopo di lui!
Il Petrarca, però, non comprese
compiutamente il grande
contributo che stava dando al
cammino della civiltà e più
volte tentennò, si mostrò
insicuro, incerto: tutto questo
non è dovuto alla fragilità
dell'intelletto, ma piuttosto
alla fragilità della coscienza,
che forse non seppe affrontare
con determinazione il rapporto
tra fede e scienza. I turbamenti
che ne derivarono non valsero,
però, ad inficiare l'apporto
positivo che il suo pensiero
diede al progresso della cultura
e furono invece una fonte
preziosa di ispirazione per la
sua poesia: senza quel tormento
interiore, senza quello che i
critici chiamano il suo
"dissidio interiore" forse non
avremmo avuto quelle pagine
meravigliose del "Canzoniere".
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