ERANO I CAPEI D'ORO A L'AURA
SPARSI
Questo sonetto rielabora il tema
stilnovistico della donna-angelo
e descrive la situazione tipica
della donna che incede (il v. 9
«Non era l'andar suo cosa
mortale» va confrontato con il
sonetto dantesco Tanto gentile,
e con altri di Guinizzelli e di
Cavalcanti).
Osserviamo, però, che l'immagine
di Laura è più mossa e meno
stilizzata di quella della
donna-angelo e inoltre che essa,
per effetto dell'elemento di
natura introdotto dal senhal
«l'aura» (qui presentato nel
primo verso, e comparso da poco
nel Canzoniere), coinvolge, sia
pure qui soltanto per mezzo di
questo elemento appena accennato
anche se carico di movimento, la
partecipazione del paesaggio
alla rappresentazione.
Ma la vera grande novità del
sonetto sta:
- nella prospettiva temporale
molto varia e mobile, con rapidi
passaggi da un tempo verbale
all'altro, da presente,
imperfetto a passato (con spicco
molto forte e significativo dei
due passati remoti del v. 8 e
del v. 13), con prevalenza
dell'imperfetto, sin dal verso
iniziale, che riporta la scena
nella sfera del ricordo, in
equilibrio fra la bellezza
splendida del passato e la
tristezza e il decadimento
fisico del presente;
- nella varietà e mobilità dei
rapporti fra soggetto e oggetto,
con una prospettiva anche in
questo caso continuamente
cangiante. Ha attirato
l'attenzione su questo aspetto
della sintassi del sonetto lo
studioso Georges Giintert:
«Il sonetto si avvia a disporsi
su una serie di soggetti
paralleli ("i capei", "il vago
lume", "il viso"), ma già nella
seconda quartina il rapporto
Laura-io tende sottilmente ad
invertirsi. Con il v. 6 siamo
passati, quasi insensibilmente,
da un soggetto che intendeva
Laura (per sineddoche) ad un
nuovo soggetto (io) che
subordina a sé quanto è stato
detto. La nuova prospettiva è
dovuta anche al fatto che quell'io
che dice "non so se vero o
falso" è un io-arbitro, diverso
da quello che vide il fascino di
Laura. E quando nel v. 7 il
capovolgimento dell'oggetto in
soggetto (" I' che l'esca... ")
s'è compiuto, si vedrà che il
Petrarca, per arrivarci, ha
dovuto descrivere un meandrico
giro che coinvolge tanto
l'io-protagonista quanto quello
che lo contempla a distanza.
L'effetto cui sembra mirare il
poeta, spostando in tal modo
l'angolo visuale, è quello di
una prospettiva interna
continuamente cangiante:
all'interrogativo ("non so se
vero o falso") e al dubbio, che
creano un'atmosfera evanescente
ed arcana, si associa una lenta
transizione sintattica che,
simile al moto descrivente un
arco o una spirale, va da Laura
all'io e viceversa. Lo stesso
andamento flessuoso si riflette
nelle terzine: da un primo
momento cui sottende un soggetto
riferibile a Laura (ancora per
sineddoche: "l'andar suo", "le
parole") - messo in posizione
assoluta - si approda di nuovo
al soggetto "io", che attira a
sé altri due attributi di Laura,
che per quanto oggetti ormai,
restano ritmicamente dominanti:
"Uno spirto celeste, un vivo
sole / fu quel ch'i'vidi... ".
L'impressione complessiva è
quella di un interiore flusso e
riflusso, simile all'agitarsi
della coscienza, in cui si
alternano inquieti ragionamenti
("ch'or ne son sì scarsi", "qual
meraviglia...", ecc.) ed
evanescenti ricordi, riflessioni
e visioni della memoria».