IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL QUATTROCENTO
Luigi Pulci: Il Morgante

Poema cavalleresco in ottava rima composto tra il 1460 e il 1470 a istanza di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo il Magnifico.
Il poeta trasse la materia da un rozzo e incompiuto Cantare d'Orlando d'ignoto trecentista; e ne scrisse 23 canti che, letti alla mensa dei Medici via via che venivano composti, furono pubblicati non si sa dove né quando, ma prima del 1478. Difatti, tra il '78 e l'80 ne esistevano copie stampate, come è provato da una lettera del duca Ercole I d'Este, che nel 1478 cercava di procurarsi "un libro chiamato Morgante". Nel 1480 fu stampato a parte l'episodio di Morgante e Margutte col titolo Il Morgante piccolo. Ma di queste edizioni non è rimasta copia alcuna. L'edizione più antica che ci sia pervenuta, e di cui esiste un esemplare unico nella Biblioteca Nazionale di Parigi, fu stampata a Venezia nel 1482; e lo stesso anno ne fu fatta un'altra a Firenze. L'anno dopo il Pulci ricorresse e aumentò quest'edizione di cinque canti, derivando la nuova materia da un altro testo anonimo, il poema La Spagna; e fu questa edizione che andò sotto il titolo di Morgante maggiore rispetto al Morgante piccolo. Di essa si sono serviti gli studiosi "per la restaurazione del testo" che dal 1500 in poi aveva subite diverse "revisioni" ecclesiastiche e amputazioni. Figurano in questo poema alcuni degli eroi principali del ciclo carolingio: Carlo Magno, Gano di Maganza, Orlando, Ulivieri, re Marsilio, Rinaldo, Ricciardetto, ecc. Sono invenzione propria del Pulci il gigante Morgante e il mezzo gigante Margutte; e vi agiscono anche due diavoli, Astarotte e Farfarello che, per magia di Malagigi, incorporati nei cavalli Balardo e Rabicano, hanno il compito di ricondurre in volo dall'Egitto Rinaldo e Ricciardetto. Orlando, sdegnato che Carlo Magno confidi in Gano senza accorgersi dei suoi tradimenti, abbandona la Corte; e altrettanto farà Rinaldo suo cugino. Poco dopo Orlando s'imbatte nel gigante Morgante, che molestava i monaci d'una badia; lo converte alla fede cristiana, e dopo averlo costretto a servire i frati lo fa suo scudiero. Ora da solo ora con Rinaldo, i due paladini sciolgono incanti, combattono re, regine e mostri e convertono alla fede i vinti. Ma quando i Mori minacciano la Francia, i paladini tornano a difendere Carlo e li sconfiggono. Gano però, segretamente d'accordo con Marsilio re di Spagna, tesse un tradimento, e, mentre re Carlo ripassa vincitore i Pirenei e i paladini, con a capo Orlando, proteggono la retroguardia dell'esercito di Carlo, i Mori piombano su di loro al passo di Roncisvalle. Orlando suona il corno, Carlo Magno torna indietro, sbaraglia i Mori, e, convinto del tradimento di Gano, fa squartare questo a coda di cavallo e fa impiccare re Marsilio. Il poema si chiude con la fine serena di Carlo Magno. Il Morgante è soprattutto creatura della Corte del Magnifico, il quale spesso si compiaceva dell'espressione popolare e per il popolo componeva con gusto di parodia. Giudicare in se stesso questo poema, al di fuori di un gusto popolaresco che tendeva a divenire motivo dominante nella cerchia di Lorenzo e continuerà poi per buona parte del Rinascimento, sarebbe impossibile o ingiusto. Direi che il Pulci si trovi, di fronte al mondo cavalleresco, in una posizione simile a quella in cui si sarebbe trovato il Pascarella dinanzi alla Scoperta dell'America narrata da un popolano: egli non fa la parodia del suo soggetto quanto lo rivive mediatamente, attraverso le forme assunte filtrando per una mentalità che stranamente gli contrasta. Questa mentalità è quella del cantastorie, che particolarmente interessa il gusto del Pulci e diviene in certo senso protagonista del poema, così come protagonista del poemetto pascarelliano non è Cristoforo Colombo ma lo stesso narratore popolano. Il Pulci non ha alcuna intenzione di deridere la cavalleria, né la religione; ma si spassa a contraffare i cantastorie di piazza, a cantar coi loro modi, con la loro lingua, con la loro psicologia fanciullesca, con la loro stessa inventiva stereotipata che si ravviva non appena accolta da un gusto parodico. Da questo punto di vista, nulla di più errato che vedere nel Morgante un mondo epico contemplato da uno spirito naturalmente giocondo. Ché la vita del Pulci fu tristissima ("I'ò mal quand'i' rido", dice egli stesso in un suo componimento), e il suo spirito naturalmente inclinava alla tristezza e alla malinconia. È vero piuttosto, come dice il Cesareo, che il Morgante è "la materia cavalleresca infusa di un'anima plebea" e nel bonario gigante e in Margutte il popolo stesso si mira nello specchio del suo rozzo e sincero naturalismo. Questo popolo segue ammirato le strampalate avventure dei paladini di Francia e vi partecipa come può: il Pulci non ha voluto rappresentare altro nella sua parodia. Di qui ancora proviene quel frammischiarsi del comico e del serio che non è mai intenzionale contrappunto di motivi opposti, ma spontanea vicenda di lati seri e ridicoli ridotti ai limiti dell'umano: già nei cantari era avvenuto questo, dove il riso e la commozione si affermavano con eguale elementarità e si alternavano senza passaggi, infantilmente dimenticandosi. In questa mancanza di soggettività - che tuttavia tanti non hanno voluto riconoscere, poiché, per il Momigliano e per il Rajna, il Pulci è scrittore essenzialmente soggettivo e vero interprete burlesco di un mondo epico -, in questo versarsi del poeta nell'animo del suo popolo partecipandone la schiettezza, è la ragione per cui il Morgante rimane lontano da un vero umorismo. Vero umorista sarebbe stato, il Pulci, se fosse riuscito a trasfondere i suoi dolori, le sue miserie in qualcuno dei personaggi e ne avesse riso; se la sua ironia, la vana parvenza di quello sciocco e puerile mondo cavalleresco fosse riuscita in qualche punto a drammatizzarsi, attraverso il suo sentimento, comicamente. Ma egli non solo non vede né può vedere se stesso nel dramma, ma non riesce neanche a vedere il dramma nell'oggetto rappresentato. Gli rimane solo il senso generale della comicità, che non è umorismo, ma risata di popolo che sprizza anche da motivi convenzionali e ripetuti.

Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia. (De Sanctis).

Un poema non ben accordato da un'unica dominante ispirazione. E nondimeno il Morgante deve dirsi uno dei libri più riccamente geniali della nostra letteratura. (B. Croce).

Luigi Pirandello

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