IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL REALISMO

CAPUANA: GIACINTA


Le varie redazioni


La prima edizione di Giacinta, pubblicata a Milano nel 1879, con dedica a Emile Zola, per i tipi di Brigola, fu accolta male dalla critica: l'accusa principale fu quella di immoralità (Emilio Treves in una recensione sull'«Illustrazione Italiana» parlò di «libro immondo»), alla quale si aggiunse quella di maldestra imitazione e radicalizzazione del metodo zoliano («Gli imitatori» scrisse Enrico Panzacchi «sdrucciolano quasi sempre, senza accorgersene [...] perché non li sorregge o la potenza del maestro o certo proposito elevato e schiettamente morale che spesso traspare nei suoi libri»). Verga invece, in una lettera inviata a Capuana subito dopo la pubblicazione, si complimentò col suo «carissimo Luigi», giudicò il romanzo «un lavoro da maestro, e di primissimo ordine», ne elogiò il «rigore di analisi psicologica», ma ne lamentò «qualche reminiscenza del Zola» e «qualche crudezza di particolari non necessaria, né opportuna». Questa prima edizione comunque, anche per un certo alone di scandalo derivante dal dibattito critico, si esaurì in sei mesi.
La seconda edizione fu pubblicata da Giannotta, a Catania, nel 1886. Si tratta di un vero e proprio rifacimento: dalle 372 pagine della precedente si passa a 328, «la successione degli eventi è più agile e veloce, lunghe descrizioni sono sostituite da dialoghi, la prosa si è fatta più leggera: mancano alcuni interventi in prima persona dell'autore, che venivano meno ai criteri dell'impersonalità e oggettività>. Inoltre «egli ha attenuato la crudità di certe scene, riducendo le insistenze su temi "scabrosi" e le rappresentazioni troppo "veristiche" di istinti e passioni» (G. Davico Bonino). La critica accoglie positivamente questo "rifacimento": Giovanni Alfredo Cesareo, in una recensione sulla «Cronaca Bizantina», parla di «un romanzo pieno di forza di scienza, di sincera passione dell'arte, come pochi se ne son fatti in Italia».
Una terza edizione - che si distingue dalla precedente solo per interventi di carattere linguistico - fu pubblicata ancora da Giannotta nel 1889. Qui prendiamo in esame la prima redazione del romanzo perché - al di là del giudizio di valore sugli esiti artistici (opinabili, come si è visto dalle citazioni riportate) - essa rappresenta storicamente il primo esempio di romanzo naturalistico di Capuana, impegnato in quegli anni, memore delle suggestioni del "romanzo sperimentale" di Zola, a portare la narrativa italiana «dal latte e miele del Carcano al pane nero del Verga», come egli stesso ebbe a dire.

La vicenda


Giacinta, figlia di una donna avida e arrampicatrice sociale e di un uomo insignificante e zimbello della moglie, cresce negli agi ma priva di affetto materno. Ancora bambina è violentata da un giovane servo di casa; reclusa perciò in collegio, vi trascorre anni che accentuano la sua solitudine. Tornata a casa, si rende conto del peso che l'ambiente in cui vive attribuisce a quell'episodio della sua infanzia, da lei quasi dimenticato; da ciò un susseguirsi di crisi, frustrazioni, oscuri grovigli emotivi che ne determinano scelte e comportamenti anomali: ama Andrea ma respinge la sua proposta di matrimonio, pensando che un giorno questi potrebbe rinfacciarle la sua "vergogna" infantile, e sposa invece una sorta di babbeo, un nobile decaduto, concedendosi però la sera stessa delle nozze ad Andrea, che diventa il suo amante. In seguito lo costringe a rinunziare al suo lavoro e lo mantiene; travolta da una febbre di sensi e di immaginazioni si lega a lui sempre di più, specie dopo che l'ha resa madre di una bambina. Tra l'iniziale scandalo e la successiva assuefazione dell'ambiente di una piccola città di provincia, la relazione continua, ma Andrea - trascorsi quattro anni - vive sempre più stancamente il suo rapporto con Giacinta. Dopo disperati ma inutili tentativi di legarlo ancora a sé, Giacinta, sconvolta anche dalla morte per difterite della bambina (vissuta con indifferenza da Andrea) e ormai cosciente della propria solitudine, si uccide.

Un'«opera di coscienza e d'arte»


Quando Capuana scrive la rima Giacinta ha già prodotto come narratore solo una raccolta di novelle, Profili di donne (1877), ma come critico si è impegnato parecchio per un rinnovamento della narrativa italiana, divulgando entusiasticamente le teorie di Emile Zola e contribuendo a farne apprezzare le opere (notevole una sua entusiastica recensione de L'Assommoir del 10 marzo 1878 sul «Corriere della Sera»). Nel clima della cultura positivistica contemporanea e con le suggestioni delle teorizzazioni e delle realizzazioni di Zola, Capuana pensa a un rinnovamento della produzione letteraria italiana e concepisce il romanzo come un'«opera di scienza e d'arte», vale a dire come un'opera nella quale lo studio del vero si realizzi tenendo fermi per lo meno due presupposti fondamentali: l'utilizzazione degli apporti delle scienze (prima fra tutte la fisiologia, che può spiegare i comportamenti umani e «il segreto di certe azioni») e l'adozione di un atteggiamento distaccato e scientifico di fronte alla vicenda e ai personaggi. Il romanzo diventa così "studio" di casi umani, che permette di spiegare e comprendere anche la stranezza, l'anormalità (come il comportamento di Giacinta). «Capuana infatti interpreta, da vero positivista, l'anomalia come una risposta in sé razionale a una situazione di scompenso e di difficoltà; è il tentativo di mostrare come tutto, compreso quanto sembra cozzare contro le leggi della ragione comune, rientra nei canoni di un sistema psico-fisiologico e come anche le manifestazioni patologiche del sistema nervoso sono una risposta coerente a certe alterazioni» (Madrignani). Concepire un romanzo alla luce di queste premesse significava, nel panorama della narrativa italiana del tempo, imboccare una strada decisamente nuova, tentare il romanzo "moderno" (termine caro a Capuana): da ciò - al di là degli esiti - il valore storico di Giacinta, del quale l'autore fu sempre, e polemicamente, cosciente.

Personaggi e ambiente


La vicenda si svolge, come si è detto, in una piccola città di provincia, sulla cui localizzazione vengono fornite rare e vaghe indicazioni; con maggiore impegno e attenzione, invece, viene definito l'ambiente piccolo e medio borghese nel quale Giacinta agisce. E qui, come è stato notato dalla critica, i modelli ai quali Capuana si rifà sono ancora francesi: Balzac anzitutto per quanto riguarda la dinamica e nel contempo la commedia sociale (la carriera di "donna d'affari" della signora Marulli, madre di Giacinta, il crac della Banca Agricola Provinciale che essa aveva creato insieme con l'amante, ecc.); e inoltre Dumas figlio per quanto riguarda l'«ambientazione mondana e il decorativismo erotico-galante» (G. Davico Bonino): esemplari in questo senso le descrizioni dei balli e dei ricevimenti in casa Marulli o delle abitudini, dei riti mondani (la conversazione fatta di pettegolezzi e di galanteria, le schermaglie amorose), di cui il suo salotto è teatro. L'adozione di una prospettiva naturalistica rende più agevole al narratore il mettere a nudo la meschinità di quell'ambiente: il signor Marulli è un essere insignificante, gabbato e tiranneggiato dalla moglie, il cui agire è determinato solo dal calcolo e dall'intrigo; Andrea è un mediocre, che finisce col farsi mantenere dall'amante. Giacinta domina su tutti gli altri personaggi per complessità psicologica e, ovviamente, per l'attenzione e gli indugi analitici che il narratore le dedica. Ma in queste pagine (e sono tante) il metodo naturalistico che studia il "caso" Giacinta in una prospettiva di oggettività scientifica coesiste con un ben diverso atteggiamento, che, specie nell'ultima parte, introduce nel testo preoccupazioni morali, violazioni del principio dell'oggettività del narratore, comprensione per questa «donna che la natura aveva fatto casta» e che «le circostanze della vita avevano resa un'adultera». Questa coesistenza di atteggiamenti contraddittori è forse il limite maggiore di un romanzo per altri versi "pionieristico".

 

© 2009 - Luigi De Bellis