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IL REALISMO
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LA CHIAVE D'ORO
Pubblicata
nel volume Drammi intimi (Sommaruga,
Roma 1884), questa novella -
insieme ad altre due di tono
ugualmente crudo - non fu più
ripubblicata dal Verga. Altri
racconti verghiani furono
assorbiti nei Ricordi del
capitano d'Arce, ma questo, che
a buon diritto avrebbe potuto
essere incluso nelle successive
edizioni di Vita dei campi o
delle Novelle rusticane o almeno
in Vagabondaggio, soltanto di
recente - nella edizione
completa delle Novelle - è stato
riesumato. Eppure è tra le più
vigorose e spregiudicate novelle
del Verga, «una delle più belle
e delle meno conosciute>, come
la definì Leonardo Sciascia.
Quali furono le ragioni che
indussero Verga, seppure
tacitamente, a rifiutarla?
Cerchiamo di dare questa
risposta:
La novella è di una particolare
durezza nei riguardi della
classe dirigente, dei
"galantuomini", qui
personificati dal canonico e dal
giudice. È inoltre uno dei rari
casi della narrativa siciliana
nei quali si affronta, sia pure
per accenni, il problema della
mafia: la mafia per così dire
"agraria", propria di una
società agricola. Un mafioso è
Surfareddu, il classico "campiere"
che ricorre con disinvoltura
all'omicidio; mafiosa è la
complicità che lega il
magistrato e il proprietario
terriero (tra parentesi, non è
fuori luogo notare che la
narrativa siciliana
otto-novecentesca, sino a
qualche decennio fa, è stata
reticente su questo aspetto
della società rappresentata.
Rimozione o omertà?...).
Leonardo Sciascia, che a questa
novella ha dedicato un saggio,
ha scritto:
Nella novella di Verga la
giustizia è chiamata a decidere
su un tragico caso tipicamente
classista, di cui il giudice
vede nettamente le
responsabilità morali e legali:
«si sfogò» dice Verga, «contro
quel servo di Dio che era una
specie di barone antico per le
prepotenze, e teneva al suo
servizio degli uomini come
Surfareddu per campari, e faceva
ammazzar la gente per quattro
ulive»; ma questo sfogo, questa
minaccia, serve soltanto a
disporre il canonico a pagare
quel prezzo che, con un
accorgimento, il giudice
stabilirà. E alla non fatta
giustizia del giudice borbonico,
succede l'indulto di Garibaldi.
La parabola si compie
spietatamente, tremendamente,
con questa frase: «Nel frutteto,
sotto l'albero vecchio dove è
sepolto il ladro delle ulive,
vengono cavoli grossi come teste
di bambini». Non c'è il destino,
non c'è la fatalità: ci sono gli
uomini, la società, la storia.
Non troveremo, nell'opera di
Verga, accusa più netta e
terribile di questa, contro la
classe dei galantuomini, contro
la loro giustizia. Un galantuomo
il giudice che dà un prezzo
abbastanza modico alla propria
corruzione - e si sente che a
giudizio del canonico e di
Surfareddu, del servo di Dio e
del mafioso, anche Garibaldi,
per l'indulto che tocca a questo
e per la terra che lascia a
quello, può essere considerato,
nonostante tutto quel che prende
nome di rivoluzione, ma soltanto
nome, un galantuomo.
In conclusione quindi il
canonico e il giudice, più di
Surfareddu, hanno la
responsabilità di quel morto,
perché entrambi tradiscono un
loro preciso compito: la
religione e l'amministrazione
della giustizia. Tradimenti
simili, per la verità, ne aveva
rappresentati anche Manzoni con
note di profondo pessimismo,
riscattato però da una ideologia
che vedeva le cose umane in una
prospettiva provvidenziale.
Niente di simile nel mondo
verghiano dove l'inesorabile
meccanismo economico che regola
la vita associata esclude ogni
criterio di giustizia: al posto
della quale ci sono invece la
convergenza di interessi e la
solidarietà della classe
dominante: una solidarietà che
il giudice facilmente concede e
il canonico irrisoriamente paga.
Solidarietà che qui il Verga
amaramente denunzia come
situazione di fatto,
fatalisticamente intesa: così è
stato e così sempre sarà (ad
onta di ogni cosiddetta
«rivoluzione»). Ma con gli anni,
al «galantuomo» Verga che della
classe cui apparteneva aveva pur
messo in luce i meccanismi
perversi - questa denunzia
dovette sembrare eccessiva. Da
ciò - è un'ipotesi - la mancata
ripubblicazione.
Ma Sciascia nel saggio citato
mette in luce un altro aspetto
di questa novella, richiamando
l'attenzione sulle rr. 68-73
dedicate a un bambino, Luigino,
la cui fugace presenza nella
narrazione egli ritiene
«necessaria e, per così dire,
catalizzatrice», anche se «a
prima lettura può anche apparire
gratuita e incidentale».
Muovendo da queste righe e
rifacendosi ad altri testi
(Fantasticheria soprattutto)
Sciascia sottolinea il peso e
l'incidenza che ha la memoria
nell'opera verghiana. Nel caso
di questa novella si tratta
probabilmente di una memoria
visiva, di una drammatica
esperienza della lontana
infanzia dello scrittore; ma in
tanti altri casi - più in
generale, nella produzione
verghiana - la memoria di fatti,
di tradizione orale, di dati
variamente recepiti è mediamente
presente: «si tratta di una
memoria che è qualità, forma,
stile: la memoria, direi, di una
"voce narrante", che è cioè la
narrazione stessa». Lo scrivere
di Verga insomma sarebbe «come
riascoltare, [...] trasferire la
memoria alla memoria di una
voce, di un mondo, di una
sintassi, dì una cadenza».
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