IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL REALISMO

LA ROBA E ALTRE NOVELLE


Questa novella, molto significativa nella produzione verghiana, fu pubblicata per la prima volta ne «La rassegna settimanale di politica, scienze, lettere e arti» del 26 dicembre 1880, e fu poi inclusa nelle Novelle rusticane che in prima edizione uscirono all'inizio di dicembre del 1882 (ma datate 1883).
La vicenda di Mazzarò - il protagonista - è quella del self-made man, dell'uomo che con disumani sacrifici e con spregiudicata abilità, ricorrendo alle arti machiavelliche del "Lione" e della "golpe" riesce ad accumulare una straordinaria ricchezza: la roba - vigneti, uliveti, proprietà terriere che si estendono a perdita d'occhio - rappresenta l'unico, maniacale obiettivo della sua vita. Ma questa spasmodica affermazione di sé nel processo di accumulazione deve, alla fine, pur far l 'conti con il
limite biologico della morte, che comporta la vanificazione del possesso.
Ci limitiamo a ricordare che la vicenda umana di Mazzarò ha molte analogie con quella di Mastro-don Gesualdo; va piuttosto sottolineato il fatto che la storia in questa novella è presentata da un narratore, il cui punto di vista si identifica con quello del protagonista, un narratore che è anche un ammiratore. Ma questo punto di vista, anche se prevalente, non è però l'unico, e da ciò la complessità, sul piano narratologico, di queste pagine.

Va anzitutto richiamata l'attenzione su alcune modalità della prosa verghiana che in questa novella (La roba) sono particolarmente evidenti e che si attuano specialmente alle rr. 1-25 e 63-69. L'immensità dei possedimenti di Mazzarò è resa con l'adozione di un periodare "lungo", che, col ricorso al polisindeto (e... e...e), per così dire, dilata lo spazio e accumula gli elementi della natura (ma in questo caso della proprietà, del possesso), proiettando su di loro un alone lirico tutto particolare. Siamo di fronte a una "prosa d'arte" che - sia pure ottenuta con tecniche differenti -è presente anche ne I Malavoglia. (Non a caso fra le due guerre certa critica propose una lettura "lirica", "lettura di poesia" dell'opera di Verga.)
Più che i problemi narratologici, per il cui approfondimento si può prendere spunto dalle note (narratore "regredito", omologo ai valori del mondo descritto; autore che talvolta prende le distanze dal narratore col ricorso alla tecnica dello straniamento) preferiamo sottolineare l'aspetto ideologico di questa novella, nella quale Verga di fronte all'avvio del processo di industrializzazione della società italiana e (cosa che ci interessa di più) alla trasformazione e concentrazione capitalistica nelle campagne presenta una posizione meno drastica di quella espressa in tante sue altre pagine. Di fronte a Mazzarò, campione di questo processo di accumulazione, Verga è un giudice che ne rivela la spietata applicazione delle leggi dell'interesse, ma che non resta insensibile alla calvinistica etica del fare, del produrre, dell'accumulare, alla quale questo personaggio obbedisce, quasi per una sorta di vocazione.

Su questo complesso problema proponiamo un passo critico di Guido Baldi, che è stato fra i primi ad affrontarlo.

In questa esplorazione dell'universo dei "vincitori", complementare rispetto a quello dei Malavoglia e di Rosso Malpelo, compare però un elemento inedito, che costituisce lo scarto più rilevante del sistema ideologico della Roba rispetto ai due testi precedenti: mentre vista dal lato dei "vinti" la lotta per l'esistenza, nella storica specificazione della società capitalistica e dei suoi rapporti antagonistici, presentava esclusivamente un volto negativo, l'impoverimento umano a cui riduce la ricerca dell'interesse eretta a fine unico della vita, la crudeltà dello sfruttamento e la distruzione dei valori puri, vista dal lato dei "vincitori" rivela, accanto al volto disumano, anche un volto positivo, l'epicità dell'accumulo, la potenza demiurgica dell'individuo, lo Streben [slancio] faustiano e lo slancio titanico che sono impliciti nell'ascesa economica, l'ascetismo eroico del self-made man. L'immagine della lotta per la vita, che pareva la negazione per essenza di ogni principio etico, il trionfo della forza brutale sui valori ideali, rivela inaspettatamente una sua forma di eticità. In tal modo quella problematicità che nei Malavoglia si distribuiva nei due poli opposti dell'economicità e dei valori, concretandosi nel conflitto fra due gruppi distinti di personaggi, la famiglia protagonista e la collettività del villaggio, si concentra qui su un personaggio unico, e si trasferisce interamente su uno solo dei due poli, quello dell'economicità, che si rivela al suo interno stesso problematico. Pertanto la dialetticità della rappresentazione non scaturisce solo dal conflitto, creato mediante l'artificio dello straniamento "rovesciato", tra il mondo dell'economicità e il piano virtuale dei valori, ma può anche nascere all'interno della realtà stessa del capitalismo, dagli aspetti più emblematici della lotta per la vita e della società antagonistica, che svelano all'indagine un duplice volto.

Alle radici di questa problematicità sta evidentemente l'ambivalenza verghiana nei confronti del capitalismo. Ambivalenza che non si esaurisce in una generica posizione letteraria (come per tanti scrittori dell'Ottocento romantico), ma si configura come risposta ideologica ad una precisa condizione oggettiva, a determinate contraddizioni della realtà economica e sociale: la meditazione verghiana sul carattere dell'accumulo capitalistico e dello sviluppo delle forze produttive, che è implicita nella novella (anche se è condotta su un campione limitato e modesto come il bracciante arricchito di un'arretrata provincia agricola; ma, giova ripeterlo, non sono le proporzioni dell'oggetto a qualificare l'analisi), si pone infatti in relazione a quel momento storico che, allo scadere del secondo decennio unitario, dopo la svolta segnata dall'indirizzo chiaramente protezionistico della Sinistra, salita al potere nel '76, vede i primi passi di un processo di industrializzazione, in parallelo con i processi di trasformazione e concentrazione capitalistica nelle campagne. Da un lato Verga, dal punto di vista dell'anticapitalismo reazionario tipico del ceto non produttivo dei piccoli rentiers della provincia meridionale, emarginato dalle nuove tendenze di sviluppo ed estraneo al dinamismo della borghesia della "metropoli" (anticapitalismo che, nel caso specifico dello scrittore, subisce all'origine anche l'influsso di un clima romantico-scapigliato, e si nutre della delusione risorgimentale e dei rancori propri dell'intellettuale frustrato da un momento di radicale crisi del ruolo), guarda con ostilità al capitalismo in nome dei valori puri di cui esso costituisce la negazione in atto, e ne coglie chiaramente gli aspetti crudeli e disumani; dall'altro lato però non può non vedere la grandiosità dell'epopea moderna dello sviluppo delle forze produttive, del «progresso», e ne sente invincibilmente il fascino. L'espressione più chiara a livello teorico di questo atteggiamento sottilmente problematico si può trovare proprio nella prefazione al massimo sforzo creativo intrapreso dallo scrittore in questi anni, il ciclo dei Vinti. Qui oggetto della riflessione del Verga è appunto il meccanismo del « progresso» , visto non tanto in assoluto, quanto nella forma attuale e concreta in cui ai suoi occhi si specifica, cioè la vita sociale dell'Italia contemporanea, indagata in tutte le sue manifestazioni, dalla vita dei ceti subalterni nelle zone periferiche a quella delle classi alte negli ambienti urbani più evoluti. Lo scrittore dichiara subito la sua ammirazione autentica di fronte allo spettacolo della lotta per l'esistenza, al «cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso», che gli appare «grandioso nel suo risultato» e avvolto in una «luce gloriosa», in cui «tutti i vizi [...] si trasformano in virtù». Si chiarisce però subito che non si tratta di una mera adesione apologetica, connivente con i miti ufficiali del progresso propri del blocco storico della classe dirigente e con l'ottimismo positivistico dominante nella cultura contemporanea. Se Verga esalta il «cammino fatale» dello sviluppo delle forze produttive, sottolinea anche il prezzo crudele che esso richiede, ed elenca impietosamente le « irrequietudini», le «avidità», 1'«egoismo», le «passioni», i «vizi», le «contraddizioni», le «debolezze», «quanto c'è di meschino negli interessi particolari», tutti aspetti negativi che, proprio perché nominati, non «dileguansi» affatto nella «luce gloriosa» che li accompagna, ma anzi, al di là di ogni esaltazione, si accampano con urgenza prioritaria nella mente del lettore. Coerentemente, nella costruzione narrativa, il romanziere elegge come oggetto di indagine proprio i risvolti negativi della «fiumana del progresso», i «vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti»: il carattere disumano della lotta per l'esistenza come fattore propulsivo del «progresso» non è rimosso, o idealizzato mediante apologetiche giustificazioni, ma rappresentato nei suoi termini reali.

Questo testo, che è quasi contemporaneo alla Roba, ne costituisce la migliore chiave di lettura, ed offre gli elementi più utili per capire l'atteggiamento dello scrittore nei confronti di una figura come quella di Mazzarò. Intento fondamentale del Verga è indubbiamente mostrare gli effetti negativi prodotti nel personaggio dalla dedizione totale all'accumulo, l'impoverimento umano, l'alienazione nelle cose, l'insensibilità ai valori più sacri, come la famiglia e gli affetti (si ricordi: «Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre...»; «non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba»), la brutalità dello sfruttamento esercitato sui deboli (le donne «accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive», le nerbate ai mietitori, i debitori ridotti alla fame e spogliati del «mulo» e dell'«asinello»). Malo scrittore non si arresta solo all'atteggiamento di rifiuto moralistico, "da destra", della realtà del denaro, della proprietà, dell'interesse individuale, alla constatazione desolata e radicalmente pessimistica dell'ineluttabilità della lotta per la vita. Ai suoi occhi Mazzarò possiede veramente qualcosa di «grandioso», i suoi «vizi», per un certo aspetto, si trasformano davvero in «virtù»: le proporzioni smisurate della ricchezza da lui creata, la magnanimità che sta alla base dei suoi progetti di «esser meglio del re», la sua potenza demiurgica, il suo Streben faustiano, il suo ascetismo non possono non suscitare stupefatta, sgomenta ammirazione, e finiscono per ammantarsi a buon diritto di un alone mitico e leggendario. Così, pur senza rinunciare al suo fondamentale anticapitalismo, Verga sa riconoscere quanto di grandioso il capitalismo racchiuda e sa rappresentarne la dimensione eroica; e, reciprocamente, per quanto esalti l'epica del "progresso" moderno, non ne occulta mai i risvolti dolorosi e inumani.

Penso di fare cosa gradita nel riportare di seguito il testo della Prefazione a I Malavoglia, di cui discorre il Baldi nel passo critico appena proposto.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che codesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte codeste bramosìe, tutte codeste vanità, tutte codeste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. Perché la riproduzione artistica di codesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è cosi inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell'argomento generale. Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge - lui nato fuori della legge all'artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.


Forniamo qui alcune indicazioni per una conoscenza più approfondita delle novelle di Verga, per arrivare cioè a cogliere, attraverso testi particolarmente significativi, linee tematiche e modelli narrativi dell'intero corpus. Si parta da Nedda (1874), un testo che se testimonia l'accostamento di Verga a una tematica nuova - i "poveri diavoli" delle campagne siciliane - è però impostato secondo una tecnica narrativa tradizionale: un narratore esterno che con paternalistica attenzione (e magari commozione) "si china" su quel mondo e riferisce e descrive. Ben altra sarà la tecnica narrativa della raccolta Vita dei campi (1880), quella cioè del narratore "regredito" o "eclissato" che elimina quella distanza che era ancora visibile in Nedda. È la tecnica che viene teorizzata nel prologo a L'amante di Gramigna, e che verrà adottata in modo esemplare nei Malavoglia (1881), i cui temi e protagonisti vengono presentati in Fantasticheria. Ma oltre a questi testi, il percorso che proponiamo dovrebbe includere Jeli il pastore e Rosso Malpelo, che esprimono compiutamente un (o il motivo di fondo di questa raccolta: l'inesorabile fissità dei rapporti sociali che sono rapporti di forza - fra chi ha e chi non ha, fra chi può esercitare la violenza e chi non può che subirla. Dall'ingranaggio di questi rapporti, personaggi come Jeli e come Rosso Malpelo vengono travolti: il mondo della natura, istintuale ed integro, al quale entrambi appartengono viene stritolato e sconfitto dal mondo della storia con le sue strutture sociali e con la sopraffazione e la violenza che esse comportano: Jeli si vede portar via la moglie dal "signorino" e ciò distrugge l'equilibrio "naturale" della sua personalità, e Rosso è costretto ad accettare di essere distrutto da quell'ingranaggio al punto che di lui «si persero persin le ossa». Mala straordinaria complessità di questi due testi investe tanti altri piani da quello narratologico a quello psicanalitico sui quali esiste una copiosa produzione critica.

Nelle
Novelle rusticane (1888) l'orizzonte per così dire si circoscrive: non più la complessa tematica dell'antitesi natura/storia affrontata nelle due novelle citate, ma all'interno di una precisa situazione storica - quella siciliana di metà Ottocento - i conflitti fra le classi, la lotta per la roba (ora meschina, ora non priva di una tragica luce) e la lotta per il pane. Per la roba ha strenuamente lottato Mazzarò, il protagonista de La roba (T 189), che all'accumulazione e al possesso sacrifica ogni dato "umano" e "naturale" e finisce coll'identificarsi nella roba, che diventa l'equivalente della vita. Una situazione e un personaggio, questi, che verranno ripresi nel Mastro-don Gesualdo. Per la roba lotta il protagonista della novella Il reverendo, di grande interesse sia per i problemi narratologici che pone (identità del narratore, pluralità di focalizzazioni, ecc.) sia per la rappresentazione di una figura umana (il prete affarista) che sarà frequente nella narrativa siciliana, dal canonico Lupi del Mastro-don Gesualdo al don Blasco de I Vicerè di De Roberto. Per il pane invece intraprendono una lotta tragicamente destinata al fallimento i braccianti della novella Libertà, un testo problematico e complesso sul quale ci siamo già soffermati. Dovendo qui procedere a una scelta essenziale, ci limitiamo a suggerire altre due novelle. La prima è Malaria, che non è centrata come quasi tutte le novelle finora citate - su un personaggio, ma descrive un ambiente e una tipologia umana: rispettivamente la campagna della piana di Catania oppressa dalla malaria «che par di toccarla con le mani [...] stagnante nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio» e la folla di braccianti, campari, viandanti e vetturali che in quello spazio vive, si ammala, muore. Si tratta di un testo sul quale sono state formulate valutazioni critiche differenti (compatto e unitario nella lirica evocazione di un mondo e di una condizione di vita, secondo alcuni; frammentario e "bozzettistico" in alcune parti, secondo altri), ma che nella sua prima parte dimostra come Verga riesca a coniugare il suo verismo con una prosa lirica che si snoda secondo suggestive modulazioni poetiche e come sappia trasformare la descrizione paesistica in emblema e "figura" di una condizione umana.
L'altro testo che in un sia pur rapido "percorso" non si può ignorare è Pane nero (la novella più lunga delle Rusticane), che pone problemi fondamentali per la comprensione del Verga sia a livello ideologico (lo sfaldamento rispetto ai Malavoglia di un "valore" come la famiglia) sia a livello narratologico (la struttura dell'intreccio e il ricorso al flash-back).
Ma Verga non fu solo narratore di "cose siciliane", c'è anche un Verga "milanese", quello cioè delle novelle - la raccolta Per le vie (1883) - che descrivono personaggi, situazioni, ambienti milanesi. È una Milano di portinerie, di osterie, di vetturini, di prostitute, di "balordi", è la città delle «Banche e Imprese industriali» (che nel polemico prologo ad Eva erano accomunate alla «febbre dei piaceri»), vista però nel suo coté proletario e sottoproletario e rappresentata con una gamma forse un po' dispersiva di prospettive e di angolazioni (cfr. E. Bonora, Le novelle milanesi del Verga, in «Giorn. st. della lett. it.»). C'è posto, così, per la struggente elegia de Il canarino del N. 15, che narra la rinunzia e il lento spegnersi di una giovane donna che si sacrifica per la sorella, malgrado questa le abbia sottratto il fidanzato; per il vivace bozzettismo di In piazza della Scala; per una novella come Camerati, che sul piano ideologico ci sembra la più interessante della raccolta, perché la vicenda del soldato-contadino (meridionale) Malerba che partecipa alla sconfitta di Custoza (1866) serve a Verga per una demistificante denuncia delle infatuazioni per il progresso e della retorica risorgimentale.

 

© 2009 - Luigi De Bellis