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IL SETTECENTO
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Alfieri: Profilo
In
tutta la produzione
dell'Alfieri, nella varietà dei
generi letterari toccati
(trattati, tragedie,
autobiografia, lirica), sono
costantemente presenti due idee
di fondo, due motivi che sia
pure con varia intensità la
percorrono: la rappresentazione
di un particolare "mito umano",
di una particolare figura di
uomo, e la celebrazione della
libertà.
Il mito umano vagheggiato
dall'Alfieri ha senz'altro
caratteristiche che lo
differenziano dalla umanità
normale e quotidiana; è un uomo
nel quale i sentimenti e le
passioni, gli affetti insomma
nell'accezione più ampia del
termine, assumono una forza,
un'intensità di gran lunga
superiore alla media, è un uomo
che «sente altissimamente», che
vive le sue esperienze interiori
a livello di «furore» (un
termine al quale l'Alfieri
ricorre con una frequenza quasi
ossessiva). Non c'è qualità
umana che l'Alfieri privilegi
più di questo livello
oltranzistico del sentire, ed
egli dichiara apertamente di
considerare addirittura «Dio
l'uomo altissimamente sentente».
Quanto poi all'altra idea
portante della sua opera, la
libertà, c'è da precisare che si
può avere all'inizio
l'impressione che si tratti di
una libertà politica e quindi di
una libertà come opposizione al
potere assolutistico, alla
tirannide (e fu questa
l'interpretazione che i lettori
dell'ottocento risorgimentale
privilegiarono), ma ad una
lettura più attenta ci si rende
conto che la prospettiva
alfieriana va ben oltre la
politica. La libertà che egli
celebra non è cioè la libertà di
stampa o di pensiero, che nel
corso del Seicento e soprattutto
nel dibattito illuministico
erano state teorizzate, ma è la
libertà per l'uomo di
estrinsecare tutte le sue
valenze senza limitazioni e
costrizioni, l'integrale
autoaffermazione
dell'individualità umana; è
quindi una libertà esistenziale,
non una specifica libertà
politica. E la tirannide di cui
parla l'Alfieri, e alla quale
eroicamente si oppone il «liber'uomo»,
è ben più che uno specifico
regime politico: essa sta ad
indicare il limite o meglio
l'insieme dei limiti (non solo
storici ma anche naturali) che
tiranneggiano gli esseri umani e
ne impediscono la realizzazione
in una prospettiva di totalità.
Questi due motivi - che per
chiarezza didattica abbiamo
illustrato singolarmente -
nell'opera alfieriana ovviamente
si integrano a vicenda e fanno
un tutt'uno. Nell'autobiografia,
ad esempio, scritta nell'ultima
parte della sua vita, l'Alfieri
dà un'immagine di se stesso che
si inquadra perfettamente nella
tipologia umana da lui
teorizzata e rappresentata nelle
sue precedenti opere; ciò non
significa che quanto egli scrive
di se stesso e delle sue vicende
si debba considerare pura
invenzione, ma soltanto che in
questa opera egli ha dato, della
sua vicenda umana, una
trascrizione e un'idealizzazione
letteraria, presentandosi al
lèttore come un personaggio di
dimensione eroica e
superomistica, qual è quella che
caratterizza i personaggi delle
sue tragedie.
La tragedia era una modalità
drammatica, potremmo anche dire
un genere letterario, non molto
presente nella letteratura
italiana, ma l'Alfieri lo scelse
spinto quasi da un'interiore
necessità: la sua concezione
della vita era intimamente
basata sullo scontro, sulla
lotta fra quel particolare tipo
di uomo che abbiamo descritto e
i limiti e gli ostacoli che ad
esso si oppongono, sintetizzati
e simboleggiati nella figura del
tiranno; quindi la forma tragica
era la più adatta, quasi la più
"naturale' per esprimere questa
sua concezione agonistica e
conflittuale. Alla luce di tutto
questo si comprende come
l'Alfieri non potesse scegliere
che personaggi e vicende già
nobilitati e celebrati dalla
tradizione (Antigone, Bruto,
Saul, ecc.) e come egli fosse
estremamente lontano da quel
"dramma borghese" per cui si
battevano Diderot e Lessing. Ma
l'Alfieri è lontano anche da
tante altre posizioni
dell'Illuminismo, è oltre: il
suo mito umano, caratterizzato
da un'oltranzistica intensità
affettiva, scardina i razionali
equilibri della tipologia
borghese-illuministica: le
posizioni che teorizza di fronte
all'esperienza della Rivoluzione
francese si risolvono in difesa
dei privilegi nobiliari e in
satira dei principi
illuministici, entrambe
particolarmente astiose.
Dall'Alfieri le generazioni
immediatamente seguenti
accoglieranno - leggendone
l'opera secondo le loro esigenze
- le suggestioni di un mito
umano agonistico, dominato
sempre da furori eroici, e
l'indicazione di una letteratura
come strumento di libertà
(intesa, questa, secondo una
lettura discutibile ma
legittimata dalle contingenze
risorgimentali, come libertà
politica) .
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