|
IL SETTECENTO
|
|
|
|
Alfieri: la fine di Saul
Tutto crolla intorno a lui nelle
squallide, brevi, incalzanti
scene finali in cui la tragedia
libera il suo ritmo dagli
avvolgimenti, dalle pause (dalle
abbondanze anche, che qualche
volta appesantiscono questo
capolavoro) degli atti
precedenti, e precipita verso la
catastrofe recuperando in forme
piú rapide e risolutamente
tragiche - nei brevi, assoluti
incontri dei personaggi
sopravvissuti, nelle loro
battute inquiete e sollecitate
dalla azione che li travolge -
le note più intime dell'elegia,
della tenerezza affettuosa,
della pietà che circonda Saul e
da cui Saul si difende (e mentre
se ne difende le rivela e le
accentua in se stesso, nella sua
ricca umanità) per non cedere
all'impeto di autocompassione,
di intenerimento che sale dalla
sua intensa sensibilità e che
tanto lo distingue dai semplici
tiranni, dai «superuomini» di
altre tragedie alfieriane.
Mentre Saul corre alla
battaglia, gli viene incontro
Abner, «con pochi soldati
fuggitivi», gli annuncia in
parole pietose ed essenziali
(anche Abner trova qui la sua
luce più poetica, il suo
linguaggio più profondo) la
sconfitta, e la morte dei figli:
notizie che, nella forma
esitante e fratta con cui gli
vengono comunicate, fan vibrare
in Saul gli ultimi sussulti del
suo sdegno e della sua
diffidenza. «Sconfitti? e tu
fellon, tu vivi», dirà Saul ad
Abner, che ha voluto
sopravvivere solo per salvare il
suo re, mentre questi sdegna per
sé una simile offerta di fuga e
di sopravvivenza: «Ch'io viva,
ove il mio popol cade?». E
chiederà, fra diffidenza e
trepidazione paterna: «Gionata...
e i figli miei... fuggon
anch'essi? - Mi abbandonano?».
E dalla reticente risposta di
Abner («Oh cielo!... i figli
tuoi... - no, non fuggiro... Ahi
miseri!...) trarrà la sicura e
terribile conseguenza:
«T'intendo: - morti or cadono
tutti». Egli si è fatto sempre
più lucido e sicuro nella
risoluzione della morte («lo da
gran tempo in cor già tutto ho
fermo: - e giunta è l'ora»),
nella squallida coscienza della
sua assoluta infelicità, nella
eroica volontà regale di
affrontare da solo la morte in
un'estrema affermazione della
sua dignità, in un estremo
contrasto con la potenza ostile
che può infrangere, ma non
domare la sua gigantesca
personalità.
Allontanata Micol mentre «si
appressan l'armi» - ed essa si
tende in un'estrema invocazione
senza risposta: «Padre! ... e
per sempre?» (mai come qui
l'Alfieri raggiunge tanta
potenza nell'incontro
dell'azione e del tempo che
incalza e brucia ogni indugio e
la tensione degli affetti che
ripugnano alla separazione
definitiva, all'esito tragico
della sorte dei mortali) - Saul
rimane solo nella sua estrema
prova di «infelice eroe».
Caccerà dal suo animo l'ultima
immensa traccia di tenerezza
(«Oh figli miei!... Fui padre»),
commenterà rapidamente la sua
tragica solitudine («Eccoti
solo, o re; non un ti resta -dei
tanti amici o servi tuoi»), e si
rivolgerà al suo antagonista più
vero:
Sei
paga, d'inesorabil Dio terribil
ira?
Non preghiera, non
riconoscimento di giustizia, e
neppure il completo svolgimento
della persuasa, aperta denuncia
del Leopardi («la man che
flagellando si colora - nel mio
sangue innocente»), ma certo
l'individuazione potente della
forza superiore e inesorabile a
cui risale l'origine delle sue
sventure, del limite ferreo che
invano Saul ha cercato di
superare e di fronte al quale
egli - mentre testimonia con la
sua morte solitaria,
abbandonata, fuori della ebrezza
della vittoria e persino della
battaglia, la coscienza suprema
dei personaggi alfieriani della
invincibilità del limite e della
inutilità dolorosa dei loro
sforzi titanici - afferma ancora
la sua dignità eroica, la sua
volontà di suprema liberazione,
la tragica grandezza degli
uomini alfieriani, vinti, ma non
piegati, capaci, nell'estrema
sconfitta, di un ultimo ergersi
impavido di fronte alla morte,
non subita ma voluta come prova
suprema della loro ansia e
possibilità di libertà e di
affermazione .
|
|
|
| |
|
|
|
| |