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 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL TRECENTO

GUIDO GUINIZELLI: RIME


Queste rime di Guido di Guinizello della nobile famiglia bolognese dei Principi (1230/40-1276), che tanto influirono sulla formazione del gusto di Dante e degli amici suoi, ci rivelano un'originale figura di poeta. Nel Guinizelli si congiungono una straordinaria vivezza di sentire e un abito di pensosità che lo conduce ad approfondire l'immagine e il sentimento: ne nasce una poesia raccolta in immagini di singolare intensità, rappresenti il poeta se stesso sgomento per l'improvviso assalto d'amore ("Per gli occhi passa come fa lo trono - Che fier per la finestra della torre - E ciò che dentro trova, spezza o fende"), o esca, descrivendo la bellezza della sua Lucia incappucciata, nell'ardente, inattesa esclamazione: "Ah! prender lei a forza, oltre su grado, - E baciarli la bocca e 'l bel visaggio - E gli occhi suoi ch'èn due fiamme di fuoco", o celebri l'amata che trasfigura con la sua presenza quanto le sta d'intorno: "Ben è eletta gioia da vedere - Quand'appar infra l'altre più adorna - Che tutta la rivera fa lucere - E ciò che l'è d'intorno allegro torna. - La notte s'apparisce - Come lo sol di giorno dà splendore... ". La stessa violenza dell'affetto, che è in questi e in altri passi, ci appare contenuta da uno spirito vigile e riflessivo, che può, dalle immagini più vivaci, passare a un tono più grave e sentenzioso. E si comprende come un tale spirito giungesse in un momento della sua vita a ripiegarsi su se stesso, su quel sentimento d'amore che era il soggetto precipuo se non unico della poesia sua e del suo tempo e, riprendendo motivi sparsi nella poesia provenzale e italiana e nella letteratura dottrinale sull'amore del Medio Evo, ne traesse quella concezione d'amore, che parve nuova, e tutta nuova fu non tanto negli elementi di cui è costituita, quanto nell'aspetto in cui si presenta, nell'impronta della personalità di chi la elaborò e della civiltà dei comuni italiani in cui sorse. Amore non è peccato, anzi è l'esplicazione della nativa gentilezza o nobiltà dell'animo, che si vien rivelando a chi la possiede e ad altrui per virtù di una donna bella, mezzo e guida alla perfezione spirituale dell'amante. Tale concezione il Guinizelli espose nella famosa canzone "Al cor gentil ripara sempre Amore", non come arida dottrina, ma con la commozione di chi rivela una preziosa verità e la vagheggia in sempre nuovi aspetti, sviluppandola in una serie di similitudini, tratte quasi tutte da oggetti luminosi, e in versi che hanno insieme la gravità gnomica e la luce dell'immagine ("Al cor gentil ripara sempre Amore - Come l'augello in selva a la verdura ... ", "Fere lo Sol lo fango tutto 'l giorno, - Vile riman, né 'l Sol perde calore... "), sino alla stanza ultima, nella quale, abbandonando il discorso impersonale e lasciando sentire al di sotto della dottrina il calore di un sentimento attuale, si rivolge alla sua donna e immagina che, dopo morto, Dio lo rimproveri di avere innalzato una creatura terrena sino a paragonarla a Lui, guida e luce agli angeli, come l'amata all'amante, ed egli così si scusi: "Tenea d'angiol sembianza - che fosse del tuo regno. -Non fea fallo, s'io le posi amanza". E che la concezione guinizelliana dell'amore fosse, più che dottrina, sentimento, ci è mostrato da quei sonetti fioriti, per così dire, accanto alla maggiore canzone, nei quali il poeta trova per esaltare la donna, creatura eletta a innalzare e purificare l'animo, le immagini più delicate e pure, celebrandone insieme la bellezza luminosa e le singolari virtù: "Vedut'ho la lucente stella diana - Ch'appare anzi che 'l giorno renda albore, - Che ha preso forma di figura umana... ", "Voglio del ver la mia donna laudare - Ed assembrargli la rosa e lo giglio... Passa per via adorna e sì gentile - Che sbassa orgoglio a chi dona salute... Null'om po'mal pensar fin che la vede". La novità di questa poesia doveva suscitare sorprese e dissensi nella cerchia dei rimatori del tempo, uno dei quali, Bonagiunta da Lucca, rimproverò in un sonetto il Guinizelli di aver mutato la "maniera da li piacenti detti de l'amore", e di aver voluto "trarre canzon per forza di scrittura", ossia di aver voluto far poesia con una dottrina filosofica: ma vi era nelle immagini così vive del Guinizelli, nella stessa sua dottrina dell'amore una forza di suggestione, che dovevano sentire spiriti giovanili e appassionati, sdegnosi di quanto pareva loro comune o volgare e vaghi di un mondo di superiore idealità. Tali furono Guido Cavalcanti e Dante e i loro minori amici, Lapo Gianni e Gianni Alfani, che nel poeta bolognese riconobbero il loro maestro, e si sentirono da questa ammirazione, dal comune credo poetico e morale congiunti in una aristocrazia della cultura e del sentimento. Di quei giovanili entusiasmi, come dei disdegni e delle polemiche, d'allora si ricorderà Dante negli anni più tardi, e nel "Purgatorio" (canto XXIV) immaginerà di incontrarsi col lucchese Bonagiunta, l'avversario di un giorno del maestro ammirato, e di svelare a lui, ormai pacificato coi nuovi poeti, il segreto, così semplice e così arduo, della loro poesia, che il vecchio rimatore, commosso come da una rivelazione, designa con le parole consacrate ormai nella storia letteraria, "dolce stil novo". In un altro canto del "Purgatorio" (il XXVI), Dante celebrerà il poeta maestro, fingendo di trovarlo tra le fiamme purificatrici dei lussuriosi e di manifestare a lui - "il padre - Mio e degli altri miei miglior che mai - Rime d'amor usar dolci e leggiadre" - l'ammirazione antica e profonda per la sua poesia, per i "dolci detti", i quali finché vivrà la lingua italiana "faranno cari ancora i loro inchiostri".
Mario Fubini


La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene sottigliezza, e l'immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non prova. (De Sanctis).

 

© 2009 - Luigi De Bellis