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IL CINQUECENTO
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GIUDIZI CRITICI SULL'ARIOSTO E
SUL FURIOSO
DE SANCTIS
L'Ariosto del D. S. è l'artista,
non il poeta. Ne vien fuori un
ritratto quale un critico, anzi
il miglior critico romantico
poteva realizzare, unendo al
malcelato disprezzo per la
società ariostesca una vera e
profonda ammirazione per
l'autore.
Ariosto è l'uomo dell'idillio,
il cortegiano che non si
ribella, ma paziente e stizzoso,
che non vuol fastidi e, per
viaggiare, si accontenta di
Ptolomeo. Ha scatti oraziani
d'umore, pronto a scambiare la
sua posizione servile con la
libertà, ma non ne è capace, in
pratica. Anzi finisce col
ridere, scotendo la testa, anche
di se stesso. Ecco l'uomo. De
Sanctis non ne fa un campione di
umanità certo, ma riconosce che
è il tipo di borghese letterato
italiano "men reo".
L'opera: l'idea centrale della
sua critica al Furioso De
Sanctis la concentra in questa
condanna: il poema non è
materiato di contenuto serio;
non vibra di passioni, di
nessuna passione. Certo per una
tempra civile quale quella del
De Sanctis era questa una lacuna
difficilmente colmabile. Per
fare inghiottire il boccone
amaro al critico irpino ci
voleva proprio tutta la
raffinatezza di un'arte squisita
e perfetta. De Sanctis dà colpa
all'Ariosto di aver dissolto il
"mondo del reale". Prima di lui
sia Petrarca che Boccaccio, sia
il ghigno di Lorenzo che il riso
beffardo di Pulci gli hanno
spianato la strada. Quando egli
arriva non v'è più nulla di
serio in cui credere perché lui
respira l'aria di quella
società.
Il suo mondo non è Ferrara ma
quello dell'Arte.
E qui De Sanctis descrive
fortemente le corti italiane in
cui era rimasto, delle idealità,
solo il nome, non la sostanza,
della cavalleria e dell'onore.
Per questo la cavalleria era la
nostra mitologia: area riservata
ai sogni e all'immaginazione.
Ma l'Italia era, nella
intelligenza critica, paese
adulto e al soprannaturale non
credeva più.
Questo mondo è il tessuto del
poema. Mondo anarchico, ove la
libertà è senza leggi che non
siano istinti e i luoghi
s'intrecciano in uno scorrere
incessante di avventura. Parigi
non è il centro: è solo un punto
di convegno. Il vero centro è
nella penna, nella mente
dell'Ariosto.
Ecco allora lo schema. Il fine
dell'opera: l'Arte. Il motivo
interiore: la cavalleria. E De
Sanctis finirà con il terzo
paragrafo dello schema: il tono:
l'ironia.
Però, prima egli vede quali sono
i rapporti tra l'autore e il suo
mondo. Il mondo è tutto
fantastico, egli lo governa in
ogni movenza e ne sta al di
sopra. Pure scompare in esso e
gli dà la veste di assoluta
obiettività e trasparenza,
perché non si impegna in nessuna
delle cose cantate: gli basta
cantarle in quella forma
finissima. De Sanctis definisce
poi benissimo il suo ingegno,
"poroso".
Nota poi come non suscitano
sentimenti neppure i passi più
carichi di emozione, perché
sopraggiunge un tono diverso,
un'altra immagine e riappare il
gioco. Cioè l'Ariosto realizza
il vero sogno di quella società:
la pura forma senza l'impegno di
un contenuto reale e serio. Il
suo spirito è tranquillo e
sgombro. Ecco quello che lo
differenzia da Dante. Entrambi
ci portano in un altro mondo, ma
Dante si portava appresso tutti
i palpiti, i fremiti, il sangue,
le lacrime o le beatitudini e i
sorrisi di questo, mentre
Ariosto naviga per il cielo
dell'immaginazione con la testa
scarica.
E qui l'ultima nota: l'ironia.
Sembra che sotto la bella
esteriorità non ci sia nulla.
Invece c'è un riso serio e
profondo. E' il riso di chi ama
il suo mondo di carta ma sa che
è di carta. E' il riso
precursore della scienza, che ha
dissolto i miti del medioevo, è
il riso dell'adulto, il riso
dell'uomo moderno. L'ironia.
E il serio dov'è? Dov'è il vero?
Nell'impegno artistico,
nell'amore per l'arte, per quel
gioco, per quelle care
corbellerie.
[Sotto sotto, mi azzardo a
rilevare, De Sanctis avrebbe
desiderio di togliere
all'Ariosto quel posto notevole
nelle lettere italiane, che gli
ha assegnato, coinvolgendolo
nella condanna del secolo. Ma è
solo, forse, un'impressione.
CROCE
La pagina di Croce puntualizza
tre problemi: l'Armonia,
l'ironia, l'indifferenza.
L'Armonia è una felice
definizione del sentimento che
animò il poeta nella sua opera.
Armonia che, cantando nel suo
petto, s'espanse e toccò gli
oggetti della creazione
artistica e li fece poesia
segnando la perdita della loro
autonomia, cioè svalutandoli
nella loro individualità
esasperata; li svalutò grazie
agli ammiccanti proemi, alle
digressioni, alle osservazioni
intercalate, ai paragoni che
disciolgono la commozione
dell'evento. Questo, con il tono
disinvolto e lieve che fu
chiamato "aria confidenziale".
E qui Croce definisce meglio
l'ironia ariostesca. De Sanctis
l'aveva ridotta a sorriso
amabile dell'uomo adulto di
fronte ad un mondo che non è più
credibile, Croce la innalza a
"occhio di Dio che osserva ed
ama la sua creazione in ogni
minima fibra, ugualmente, e che
di essa coglie non i volti
individuali ma l'armonia e il
ritmo.
Questa ironia non può certo
intendersi e anzi si definisce
appieno solo quando ad essa si
affianchi l'immagine
dell'Armonia.
Il terzo punto da chiarire è
relativo all'accusa rivolta
all'Armonia di essere in
sostanza indifferenza e
freddezza.
Croce ragiona così: il risultato
della visione "ironica" del
mondo, dell'atmosfera di Armonia
che si respira nel poema è la
svalutazione d'ogni ordine di
sentimenti, è "fiaccare i
sentimenti" e convertire il
mondo (tumultuoso e individuale)
dello spirito in quello equanime
ed oggettivo della natura."
Questo apparente oggettivismo
gli ha meritato l'accusa. Ma è
apparente soltanto.
Qui è uno dei nodi della critica
crociana.
Ogni sentimento, personaggio,
evento è spiritualizzato, cioè
soggettivizzato, riscattato
all'anonima oggettività, in
quanto entra nel mondo
dell'Armonia, ne costituisce una
parte che va ad armonizzarsi col
tutto.
IL PASSO CROCIANO E' IN
"ARIOSTO, SHAKESPEARE E
CORNEILLE" E IN MOLTE ANTOLOGIE.
POSTILLE CROCIANE:
- le ottave hanno la corporeità
ora di floride giovinette, ora
di efebi... che non si affannano
a dar prova della loro destrezza
perché essa si rivela in ogni
atteggiamento e gesto.
- non si faccia al Furioso lode
di epicità (come il Galileo).
All'Ariosto ne manca il
sentimento e, se c'è, è sciolto
nell'armonia. E neppure gli si
faccia lode o accusa circa la
coerenza dei caratteri. Ivi son
caratteri ove v'è vita intima
passionale e contrastante
dell'autore. L'Armonia non ha
libera energia passionale e non
crea caratteri ma disegna
figure.
- due modi per leggere il
Furioso
1) come i Promessi Sposi: libro
euritmico, come il Furioso e
d'alto contenuto morale
(diversamente dal Furioso).
2) come il Faust ove l'alto
soffio morale si ritrova nelle
singole parti.
Il Furioso si legge seguendo,
oltre la particolarità, la
continuità (ideale) di un
contenuto che si attua in forme
sempre nuove.
- l'Ariosto, spirito afilosofico,
non è un Voltaire della
Rinascenza. Ha torto De Sanctis
a fare del suo riso, quello
precursore della scienza.
RUSSO
Il problema è: Ariosto è
religioso o areligioso? Croce lo
risolve così: Ariosto era
irriverente [la religione da lui
è trattata in maniera
scherzevole (si vedano la
preghiera - patteggiamento di
Carlo, il viaggio dell'arcangelo
Michele, Astolfo e S. Giovanni
Evangelista)] o, che è lo
stesso, indifferente, areligioso
e afilosofico.
Certo, dice Russo, non vi sono
invocazioni ai santi e alla
Vergine, come in Pulci o in
Tasso, ma non è da ammettere uno
scrittore senza religione.
Vediamo, dice Russo, qual è la
società dietro l'autore, che fa
sempre sintesi a priori con la
sua vocazione. E' una società
che si crea le nuove leggi di
vita, la nuova moralità, tramite
"galatei" e "cortegiani".
Ariosto si affianca a questo
coro.
Egli rivela qua e là, nelle
satire, una risentita moralità,
dà inizio agli esordi morali nel
poema, cioè fa dove e come può
la sua professione di fede
laica, le cui categorie morali
son altre che le tradizionali.
Cioè: ha un saldo fondamento
morale e una filosofia
spicciola, che si rispecchia,
proprio, forse in quell'armonia
cosmica che Croce scoprì.
MOMIGLIANO
Rileggendo a volo il poema il
Momigliano scorge una sommaria
divisione in tre parti. La
prima, che termina con canto
XIII e che, con sfumature
diversissime e intrecciata ad
avvenimenti disparati, è
incentrata sul leit-motiv
dell'amore. Infatti ricorrono
nella prima parte Angelica e
Bradamante, Olimpia, Ginevra,
Melissa, tutte oggetto d'amore.
Questa suddivisione poggia su
un'affermazione: "la varietà del
poema non è né dispersa né
capricciosa e ogni canto ha un
suo nucleo". Così, aggiungiamo,
anche ogni ciclo di canti. Il
secondo ciclo, fino al canto
XVIII, ha per leit motiv la
guerra, la lotta tra cristiani e
saraceni, con Rodomonte nuovo
personaggio e le variazioni
tenere e idilliche di Lucina e
Morandino o della casa del
Sonno. Una terza parte, folta di
intrecci e deviazioni, mette
capo al rinsavimento di Orlando.
I motivi maggiori di questi
canti sono Rodomonte e Orlando.
Ma si affollano motivi d'ogni
sorta. La fantasmagoria è
immensa e non sempre l'autore
tempera la difficoltà della
varietà con la sua arte di
poeta. In questi venti canti
spesso si trovano ottave poco
espressive ed episodi fiacchi.
Anche in questa parte, come
nella prima, seppure più
complessa, l'accento della
poesia batte con maggior forza
sull'amore, sull'amore come
ragione ultima della vita,
delizia e tormento dell'anima.
La terza parte per la fisionomia
molteplice e l'eccellenza delle
azioni centrali si potrebbe
indicare come la migliore... ma
le tre parti si equilibrano per
importanza e per valore poetico.
Non si può trascurarne una.
Anche questo ci richiama di
nuovo alla sapiente costruzione
dell'autore.
L'ultima parte tende allo
scioglimento finale con la
catastrofe dei saraceni e le
nozze di Ruggiero e Bradamante.
E' parte compatta ma un po'
grigia.
Giova osservare che ciascuna
delle parti segna una fase ben
chiara dell'azione fondamentale:
a) dispersione dei guerrieri b)
concentrazione intorno a Parigi
c) nuova dispersione d) nuova
concentrazione e risoluzione
della guerra.
Lo scheletro del poema,
solidissimo, è allora
dissimulato sotto una florida
ramificazione di episodi. I due
perni che, divelti, manderebbero
in frantumi il poema, sono,
però: Parigi e la battaglia, e
la pazzia di Orlando.
BORSELLINO
Il segreto vitale dell'esistenza
è proprio la ricchezza di
desideri, la ricerca di
felicità. Angelica appagata da
Medoro è cancellata... persino
derisa... La condizione
dominante dei personaggi del
Furioso è quella di essere
erranti intellettualmente e
fisicamente, di agire e sentire
entro un mondo illusorio...
Ariosto sa (p.109) con Erasmo
che "eum errorem tollere, est
fabulam omnem per turbare " (Encomium
Moriae XXIX), "significa
interrompere lo spettacolo della
vita". Anche il Furioso è un
elogio della pazzia... La pazzia
che Erasmo esalta è il "iucundus
quidam mentis error" che libera
l'animo dalle ansiose
preoccupazioni e lo colma di
vario piacere, quella stessa
pazzia o errore (parola
tematica) che, come dice
Ariosto, fa vedere a occhi
chiusi il bene e a occhi aperti
il male. Questo piacevole errore
non va curato...
[Nell'episodio di Astolfo] è
evidente (p.138) la concordanza
con le proposte antidogmatiche
del razionalismo erasmiano,
volto a un recupero
integralmente umanistico del
mondo, anche negli aspetti
irrazionali.
[Astolfo dalla luna non porta -
diversamente da Dante - alcun
messaggio]. La vita sarà quello
che sarà e lo spettacolo del
mondo non sarà interrotto. Ma
come ogni spettacolo, anche
questo del mondo ha bisogno di
una regìa, che sappia
distribuire le parti e
armonizzarle. Solo i poeti sanno
organizzarlo, il mondo; perciò
S. Giovanni pronuncia
un'orazione in difesa della
poesia: la poesia non è verità
[anzi è favola, invenzione e
ribaltamento del vero. E' così
sconsacrata l'antica
identificazione di poesia e
verità e sapienza e celebrato
umanisticamente il poeta come
creatore d'un macrocosmo
alternativo a quello reale.
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