IL SITO DELLA LETTERATURA

 Autore Luigi De Bellis   
     

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IL CINQUECENTO

GRAN GIOCHI DEL CASO E DE LA SORTE

 

Sul tema tassiano dei «gran giochi del caso e de la sorte» si prendano in considerazione le seguenti riflessioni di Ezio Raimondi.

Ha dunque ancora ragione il Caretti, quando osserva che nella Liberata i personaggi «costituiscono i nodi di confluenza, di implicazione o di chiarimento, degli impulsi su cui l'opera si regge, qualificandosi non tanto per gli atti che compiono quanto per l'interno sviluppo delle passioni onde quegli atti e quelle vicende procedono». Non solo diventa inutile distinguere tra caratteri astratti e caratteri autobiografici, come se si rinnovasse in essi il contrasto tra retorica e poesia, ma conviene addirittura sostituire forse alla formula di personaggio, che già il Fubini, del resto, identificava con un «mito», quella di destino. In effetti, per il Tasso, ogni personaggio è un destino: ed è la scoperta che gli concede, nonostante la sua angusta, astratta esperienza del mondo e degli uomini, di rivivere la grandezza di una storia eroica e d'illuminarla con lo splendore di un sogno che non può, tuttavia, abolire l'angoscia della morte, l'implacabile misura del tempo. D'altronde non sarà un caso che nella Liberata termini come destino, fato, sorte ricompaiano con tanta frequenza: «Cedendo al fato» dice, per esempio, Armida nel racconto delle sue finte peripezie (IV, 42), e poco dopo invocherà il proprio «destino» (52) per proclamarlo, continuando, «crudo, empio, fatale». Al «fato» di Sofronia allude anche Olindo (II, 34), mentre, nel progresso del medesimo episodio, è detto «avventuroso» il fato del giovane. Pronto a ciò che ha stabilito la sorte (vi, 5), Argante si accinge a « incontrare i nemici e 'l suo fato» (6), convinto, come spiega subito dopo, che la sua destra possa dare la vittoria « in vece di fato e di fortuna» (8). Allorché Clorinda trascina le sue schiere contro i Franchi in ritirata, essa li esorta ad avanzare perché « 'l fato è duce» (VII, 117); non altrimenti il pellegrino che annunzia la fine di Sveno, narra come l'eroe abbia affrettato la sua «fortuna»: una fortuna che, conforme alla massima stoica, «traeva» i compagni e «conduceva» il magnanimo principe (VIII, 12) verso la strage di Solimano. «Dolente fortuna» è pure quella che si appresta a Erminia (VI, 106) dopo la sua romantica sortita notturna; e cosí è la «sua fortuna» che coglie il possente Guelfo nel mezzo della battaglia, guidando contro di lui «per lontane strade» un mortale sasso (XI, 59). Congiunta a quella della guerra, l'idea della fortuna, come si vede, finisce con l'essere sinonimo di morte e con l'indicare una minaccia che pende sempre su ogni uomo perché è scritta negli «eterni annali» dell'«occulto destino» (X, 20): senza questa precarietà dell'esistenza, senza questo limite insormontabile, che deve poi suggerire al cristiano la coscienza dell'effimero, non potrebbe costituirsi per il Tasso un mondo eroico. Il «fato» serba a maggiore nemico Clorinda e Gildippe (IX, 71); un uguale «destino», esclama, morendo, Ariadino, «aspetta» Argillano (IX, 80); e nella descrizione dello scudo, « morte» e «destino» risultano per il «buon Foresto» una cosa sola (XVII, 70). Anche se di solito queste formule si riferiscono ai Saraceni, quasi che il Tasso voglia contrapporre il loro fatalismo alla fede dei guerrieri cristiani nella Provvidenza, è manifesto però che, a parte gli scrupoli devoti che portano il poeta a distinguere (come farà anche, piú tardi, nelle discussioni speculative dei Dialoghi) la «legge» della «sorte inevitabile» (x, 46) lega tutti gli uomini: tanto Solimano, che lascia il campo di battaglia, gridando cupo contro la natura nemica: «Vinca al fin... il fato», quanto l'Eremita «pieno di Dio» allorché rivela ciò che il Cielo diede all'aquila estense «per suo nativo alto costume» e «per leggi a lei fatali» (x, 77). In realtà, sebbene il campo semantico di fato, anche per l'incidenza dell'esempio virgiliano, sia cosí ampio da tollerare valori diversi, se non proprio opposti, non scompare mai dal suo fondo la nozione vaga e oscura della morte: e «fatale», un'altra parola di cui il Tasso non può fare a meno, comporta quasi sempre l'idea accessoria di funesto, irreparabile (cfr. XIX, 48) come la morte. Fatale può essere una spada (V, 44), una lancia (IX, 65), una donzella (XV, 3), un guerriero (XVI, 33), una tempesta (XVII, 40), un elmo (XX, 103), una ruina (XIX, 10), un'andata (XVII, 26), una nave (XIII, 51), una canna (XI, 44), un nemico (x, 46), un terrore (VII, 116), un orrore (IV, 48). E fatale è anche tutto ciò che ha nell'esistenza un significato decisivo, supremo: un giorno (IV, 43), una notte (XIX, 92), un'ora; e sarà per l'appunto l'ora di Clorinda (l'ora della morte fatale, come ripeterà poi Argante) in quell'ottava 64a del canto (XII, il cui tema, grave e lento, piú ancora che dall'attacco avversativo, è dato dalla forza arcana di «fatale»: «Ma ecco omai l'ora fatale è giunta, / che 'l viver di Clorinda al suo fin deve»...

È stato scritto che ciò che cambia la vita in destino è la morte. Gli eroi del Tasso sanno tutti, piú o meno, di dover morire, di non muovere verso un «felice fine» (come notava già lo stesso poeta in relazione agli amori tragici), di dover rinunciare a qualcosa per adempiere il proprio destino: ed esposti sempre alle «minacce» della fortuna, conquistano la loro grandezza, la loro umanità dolente e frustrata, nell'istante in cui si trovano di fronte alla morte, quando il disegno confuso dei «grandi e maravigliosi accidenti e grandemente patetici» che hanno accompagnato la loro vita assume un ordine definitivo.
Allora, mentre si accingono ad attuare una «sorte» cui non possono sottrarsi, essi ricuperano tutto il loro passato e lo vedono finalmente nella chiarezza dell'assoluto, nella trasparenza della morte che li attende. Solimano che mira dall'alto della torre «l'aspra tragedia de lo stato umano, / i vari assalti e 'l fero orror di morte», e quasi «sorpreso e folgorato da una presenza misteriosa», come ha scritto di recente il Getto, s'innalza a una «contemplazione universale della storia e dell'umanità», è forse l'esempio piú puro di questo destino-personaggio che costituisce l'invenzione profonda della Gerusalemme, la forza irresistibile del suo intimismo epico. E chi mediti poi che nel Soldano, in questo «novello Anteo» che ha conosciuto «d'esilio» e sa di non possedere uno «stabil regno», può riscoprirsi anche la vicenda, il destino di un grande avventuriero del Cinquecento, di un favoloso pirata del Mediterraneo, intenderà insieme come i «gran giochi del caso e de la sorte» disvelatisi al suo sguardo di fatale veggente, fermino, piú che l'immagine di una vita oramai fuori del tempo, la sintesi intuitiva di una esperienza storica nel remoto stupore per le avventure di un secolo, la cui volontà di potenza non basta, per un'anima cristiana, a nascondere la natura precaria dell'uomo e delle sue conquiste.

Mario Fubini

© 2009 - Luigi De Bellis