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IL CINQUECENTO
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LA GERUSALEMME LIBERATA - IL
TRIONFO DELL'AMORE IMPOSSIBILE
L'amore impossibile, qui per la
prima volta trattato
narrativamente, che incrocia i
destini di Erminia, Tancredi e
Clorinda. Erminia ama, non
riamata, Tancredi: questi a sua
volta ama, non riamato,
Clorinda. Le donne sono pagane;
l'uomo è cristiano. Una
diversità di fede, una guerra li
separa; o meglio li separa il
destino che fa che gli affetti
non siano corrisposti: fede e
guerra rendono più intricato e
conflittuale lo stato d'animo
dei due personaggi che amano,
Erminia e Tancredi (Clorinda
invece è solo oggetto d'amore,
il suo spessore psicologico e
sentimentale è più ridotto, come
personaggio vive soprattutto
figurativamente, per come appare
soggettivamente agli occhi
innamorati di Tancredi, di cui,
quand'essa entra in scena, è
spesso adottato il punto di
vista). L'amore è per i due
"inevitabile" (24,4) e rende
inerme Tancredi, pronto ad
immolarsi, qualora l'amata lo
desideri.
Se questa è la situazione
narrativa generatrice della
dinamica degli affetti che
coinvolge i personaggi,
l'episodio vive però di infinite
sfumature tonali, emozionali,
sentimentali. Si prenda l'ottava
18, ad esempio, che descrive lo
stato d'animo di Erminia
all'atto di riconoscere il
nemico amato e nella necessità
di comprimere e celare i propri
veri sentimenti. O si prenda
l'ottava 22 dove, con rapido
trapasso, e questa volta con la
tecnica più incisiva e
incalzante dell'allocuzione e
dell'iterazione (delle
interrogative), si descrive il
diverso effetto che ha
sull'animo di Tancredi l'analoga
improvvisa
apparizione-rivelazione di
Clorinda. O si prendano tutte le
successive, per lo più
indirette, rappresentazioni del
dramma che sta vivendo Tancredi:
il suo stato d'animo si condensa
ora in un verbo carico di
significato («impètra»), ora si
esprime nel rapporto dinamico
degli atti dei due personaggi
(Clorinda «l'assale; ed ei
s'arretra», 23,4; «percosso, il
cavalier non ripercote», 24,1;
«né sì dal ferro a riguardarsi
attende, / come a guardar i
begli occhi... » , 24,2-3;
Clorinda « già baldanzosa, ed ei
seguia smarrito», 26,4), ora
nelle scelte aggettivali
(«inerme, e supplichevole e
tremante», 25,4; «smarrito»,
26,4; « di pauroso audace»,
27,1; «disperato», 27,2 ecc.),
ora attraverso le parole stesse
di Tancredi, rivelatrici del suo
dramma.
Ma, anche a prescindere dalle
due scene menzionate, la stessa
apertura del canto rivela e
dichiara la maniera tassiana di
intendere l'epos. Più che
sull'azione, pur rappresentata
con vivo gusto scenografico e
sensibilità per i movimenti di
massa, come detto, l'episodio
dell'arrivo dei crociati alle
soglie di Gerusalemme si fonda
sui riflessi emozionali e
affettivi che due diverse
percezioni visive inducono nei
rispettivi soggetti.
I crociati d'improvviso vedono
Gerusalemme mentre gli abitanti
della città vedono l'esercito
cristiano o ne odono riferito
l'arrivo. Gli uni dapprima
collettivamente vivono un
complesso stato sentimentale che
è un misto di sorpresa,
agitazione, turbamento,
allegria, esultanza, trionfo
(sono in parte termini del
Chiappelli) che lascia poi il
posto ad un sentimento di
contrizione e anzi di inappagata
volontà di contrizione
tipicamente controriformistica
(finemente espresso nelle ottave
7 e 8). Sull'opposto versante
l'apparizione dell'esercito
crociato induce sorpresa,
agitazione, timore,
sbigottimento, mestizia o furore
(nel prepararsi alla difesa da
parte dei guerrieri). È su
questi sentimenti collettivi che
si stagliano, poi, le figure e i
sentimenti dei protagonisti.
Erminia compare accanto ad
Aladino, situata in uno schema
narrativo che riproduce quello
del libro III dell'Iliade, di
Elena che dall'alto della torre
delle porte Scee illustra a
Priamo i principali eroi greci.
Ma se Aladino perde il suo
carattere iniziale di principe
machiavellico e di tiranno
senechiano per trasformarsi in
un Priamo irrigidito in una posa
bonaria e curiosa, senza le
sfumature umane del personaggio
omerico, Erminia invece esprime
originalmente la sua poesia.
Anche Erminia, come altre
figure, non è subito definita in
maniera esauriente, ma è
ritratta in tempi diversi,
attraverso una serie di
approfondimenti, in una
successione episodica, quasi in
una intermittenza di
illuminazioni, senza essere
investita inizialmente da una
luce che una volta per tutte la
rischiari e dichiari al lettore.
In un primo tempo domina in lei
la bellezza e la solitudine. La
sua bellezza rifulge ben segnata
dalle parole del poeta in
apertura di verso e di discorso,
sottolineata dall'accento
ritmico: «Erminia bella, ch'ei
raccolse in corte...» e si
irradia di un baleno di
tramontata regalità nella
notizia della sua condizione di
orfana dell'emiro di Antiochia,
vinto e ucciso dalle «cristiane
squadre», una condizione che
crea intorno a lei un alone di
mesta solitudine. Come Clorinda,
come Sofronia, come poi Armida,
anche Erminia è una tipica
figura di donna tassiana: bella
e sola. Ma a differenza delle
altre, Erminia dal principio
alla fine mantiene un aspetto
più indifeso e dolente. Dopo
questo primo suggestivo abbozzo,
la fanciulla ritorna alla
ribalta nel momento in cui
Tancredi entra in campo in aiuto
dei cristiani fatti ripiegare da
Clorinda. Allora Erminia
riappare per essere considerata
non più soltanto dal di fuori,
ma nel segreto della sua anima.
Qui non è più un volto, e non è
più una condizione esterna di
esistenza che ha rilievo, ma una
abbandonata emotività e una
passione profonda. All'apparire
di Tancredi, Erminia «già sente
palpitarsi il petto»; e alla
domanda di Aladino, invece di
risposta, le viene «su le labbra
un sospir, su gli occhi il
pianto». Un batticuore
improvviso, un sospiro spezzato,
un fiotto di lacrime represso
che lascia gli occhi segnati in
rosso: tutta una fisica
fenomenologia rivelatrice di un
turbamento interiore. In questa
zona intermedia fra anima e
sensi Erminia entra ormai nella
poesia ed esprime
un'inconfondibile voce, che
subito è approfondita dalle sue
parole ambigue che dicono odio e
significano amore. Erminia nasce
così alla poesia con il suo
sospiroso irraggiungibile amore,
con quell'immagine che le appare
d'un tratto di Tancredi, ardito
e bello, un'immagine che le fa
battere più forte il cuore e che
si risolve in sospiro e pianto.
Le sue parole, mentre per chi le
ascolta sembrano avere un senso,
assumono in realtà un diverso
valore per la donna che le
pronunzia. Sembrerebbe quasi di
assistere ad un primo esempio di
quella «dissimulazione onesta»
che sarà poi teorizzata, in
clima di adulta civiltà barocca,
da Torquato Accetto (e che non
mancherà intanto di essere
avvertita dal nostro poeta, che
in una lettera del 17 maggio
1580 doveva scrivere: «... non
mi sarei curato più oltre di
manifestar la verità, giudicando
che l'uomo non sia sempre
obbligato a manifestare quelle
cose le quali senza offesa
altrui, e senza far torto al
vero può tacere, e col silenzio
delle quali egli può credere in
alcun modo di fare a se medesimo
giovamento»), ad un esempio,
meglio ancora, di quella
«riserva mentale» su cui
disquisiranno i casisti del
seicento, e di cui diventerà un
simbolo la biblica figura di
Giuditta (che il Della Valle
interpreterà poeticamente
proprio sotto questo aspetto di
inafferrabile ambiguità). In
Erminia però non c'è la
calcolata e preoccupata maschera
del politico o del diplomatico o
del moralista, ma soltanto il
naturale segreto pudore e la
spontanea gelosa tutela di un
inconfessato sentimento, che da
un lato deve essere protetto e
d'altro lato suo malgrado si
rivela, e che perciò si nasconde
e si tradisce via via. Per
questo la sua parola trema e
riflette una doppia luce, un
doppio significato, e s'accende
qua e là più intensamente fino a
trasformare il dialogo in
monologo, in uno struggente
desiderio di possesso («oh
prigioniero / mio fosse un
giorno!...»), in una confessione
dei contrastanti effetti della
passione («fero / desio dolce
vendetta») in cui dilegua il
linguaggio dell'odio e prende
solo più rilievo quello
dell'amore. La
risposta-soliloquio di Erminia è
chiusa da un nuovo sospiro, che,
mentre ribadisce il carattere di
dolente sentimentalità di questa
figura, riprende, dopo la prima
modulazione da parte di Olindo,
quel motivo lacrimoso dell'amore
profano che dicevamo percorrere
l'intero poema.
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Mario
Fubini | |
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