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IL CINQUECENTO
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NICCOLO' MACHIAVELLI
Nato da
un'antica e nobile famiglia, il
3 maggio 1469 a Firenze, ivi
morto il 22 giugno 1527 Sui suoi
primi anni, i suoi studi le sue
inclinazioni, non si hanno che
poche e incomplete notizie- La
sua biografia non può iniziarsi
che con il 1497, l'anno di una
sua lettera a Ricciardo Bechi su
due prediche del Savonarola, e
con il 1493, l'anno della sua
assunzione nella burocrazia
fiorentina, come segretario
della seconda cancelleria. Nella
lettera al Bechi appaiono già
alcuni dei tratti della sua
concezione della vita e della
politica: è in germe in essa il
suo giudizio sui "profeti
disarmati", sugli uomini cioè
che si avventurano nel gran
mondo della politica, senza i
mezzi per dominarlo e
controllarlo. Savonarola viene
perciò giudicato da un lato uomo
ambizioso, dall'altro uomo che
non sa dar corpo e concretezza
di attuazione alla sua
ambizione: la dimensione e il
criterio del giudizio sono
nettamente mondani. Attraverso
le varie legazioni diplomatiche,
che dal 1499 al 1512 egli
dovette compiere per incarico
dei Dieci di Balia, e che lo
portarono dalle corti di "minori
potenti" come Caterina Sforza
Riario, Pandolfo Petrucci o
Giampaolo Baglioni, alle corti
di un Cesare Borgia e di Litigi
XII di Francia o di Massimiliano
I d'Asburgo imperatore, questa
iniziale intuizione della vita
politica ebbe modo di
rafforzarsi per varie vie, di
nutrirsi di esperienze
essenziali per un osservatore
politico, di assumere come
propria materia la prassi
politica di Stati che dominavano
allora la grande politica
europea.
Le relazioni diplomatiche del
Machiavelli, i dispacci cioè con
i quali egli informava quasi
quotidianamente la Repubblica
degli sviluppi delle varie
situazioni, sono perciò in
questo senso fonti di primissima
importanza per la ricostruzione
del suo pensiero politico: e chi
le studia vede in esse formarsi
poco per volta i temi essenziali
del suo pensiero: la necessità
di non seguir mai le "vie del
mezzo", ma di tenersi sempre
coraggiosamente agli estremi; la
necessità, per chi si trovi
impegnato in una situazione
concretamente politica, di
posporre l'amicizia alla forza,
i patti e la parola data al
comando utilitario delle
circostanze; la teoria della
fortuna, non ancora precisata in
questi primi anni con molto
rigore teorico, ma già assunta,
nei momenti dl maggior lucidità
speculativa, come il simbolo di
quel continuo controllo delle
cose e delle circostanze che
l'uomo non può mai interrompere
se non vuol con esso rinunciare
anche alla salvezza del proprio
Stato.
Non solo: ma attraverso le
legazioni, il Machiavelli
matura. anche una generale
valutazione della realtà
politica dell'Europa
contemporanea: giacché
viaggiando attraverso la Bassa
Germania o la Francia, egli ha
modo di saggiare in concreto
modi di vivere e di pensare,
forme politiche e militari e, in
una parola, la consistenza
stessa di quei grandi
protagonisti della politica
europea. E come dalle sue
esperienze italiane. e
fiorentine nascono gli scritti
Del modo di trattare i popoli
della Valdichiana ribellati e
Parole da dirle sopra la
provvisione del danaio, così
dalle sue esperienze
internazionali nascono gli
scritti sulla Germania (Ritratto
dette cose della Magna) e sulla
Francia (Ritratto di cose di
Francia), nei quali la sua
attenzione si rivolge
essenzialmente al grado di
maturità politica raggiunto da
quei paesi, e quindi alla
disgregazione politico-sociale
della Germania, e alla sempre
più salda unità della moderna
monarchia francese.
Gli scritti sulla Valdichiana e
sulla "provvisione del danaio"
danno l'ossatura essenziale del
pensiero giovanile del
Machiavelli: gli scritti sulla
Francia e la Germania forniscono
il metro onde giudicar la sua
maturità di osservatore della
politica europea: gli uni e gli
altri, insieme con gli scritti
sull'ordinare. lo Stato di
Firenze alle armi, ci mostrano
quali le basi su cui il
Machiavelli doveva, dopo il
1512, edificare le sue grandi
opere.
La sconfitta delle milizie
fiorentine a Prato nel 1512
consentiva agli spagnoli di
impadronirsi della città di
Firenze e di sostituire al
governo democratico del Soderini
incapace di far fronte agli
eventi, un nuovo governo
dominato dai Medici. Il
Machiavelli fu ben presto
allontanato dal suo ufficio;
sospettato di aver preso parte
alla congiura antimedicea di
Pier Paolo Boscoli, fu
imprigionato e lievemente
torturato: quindi condannato al
confino nel territorio stesso
della repubblica. Nel ritiro di
Sant'Andrea in Percussina, dove
egli aveva una piccola villa e
qualche metro di terra, i
ricordi di tante e così varie
esperienze dovevano affollarsi
con particolare insistenza alla
sua grande mente, chiedendo
ordinata e organica espressione.
Dalla fusione dei risultati
delle sue lettere storiche e
politiche (non precisabili con
troppo rigore) e delle sue
esperienze del mondo politico
che gli aveva esaminato nei suoi
dispacci diplomatici, dalla
lezione delle cose antiche e
delle cose moderne fuse in una
medesima considerazione critica,
nascevano tra gli ultimi mesi
dei 1512 e i primi mesi del
1513, i primi capitoli dei
Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio. Era un prepotente
bisogno di veder chiaro nella
struttura stessa dell'agire
politico quello che gli faceva
assumere a materia delle sue
riflessioni la storia di Roma
repubblicana, qual era stata
fissata nelle pagine di Tito
Livio. E nella perfezione della
costituzione romana,
nell'implacabile chiarezza
dell'azione politica di quel
popolo, il Machiavelli
capovolge, con eccezionale forza
polemica, un secolo di storia
fiorentina, la miseria, cioè, di
una vita costituzionale resa
instabile e talvolta addirittura
convulsa dai continui
capovolgimenti dei governi e
delle stesse strutture
cittadine, dallo spezzettamento
del potere e dalla conseguente
impossibilità di agire.
Attraverso la teoria della
imitazione degli "antiqui
ordini", energicamente sostenuta
fin dalle prime battute
dell'opera, il Machiavelli
ricongiunge la realtà del
passato alle possibilità del
presente, e svela così il suo
atteggiamento verso la storia
contemporanea. Perché poi il
Machiavelli abbia interrotto il
suo lavoro per scriver di getto
i ventisei capitoli del Principe
(1513, questo è un problema
complesso, su cui gli interpreti
si sono sempre affaticati. Ma
per risolverlo basta pensare che
i Discorsi nascono come opera
sistematica, atta più a far
comprendere i termini generali
dell'agire politico che a
schiudere all'uomo d'azione una
concreta via. E al Machiavelli,
cui la situazione storica
sembrava chiedere ed esigere una
"virtù" antica che la
riscattasse da tutte le sue
contraddizioni, occorreva
abbandonare il più dottrinario
piano dei Discorsi per scendere
sul concreto terreno della
lotta, interrogando la realtà,
prospettandosene lucidamente le
difficoltà e preparando i mezzi
per risolverle. La nota
fondamentale del Principe è in
questo prospettarsi ì problemi
del presente, in questo
disperato tentativo dì giungere,
attraverso la chiarificazione
della realtà, a scoprire
l'assoluto criterio per
dominarla.
Tutto il processo del Principe è
perciò un processo assolutizzato:
assoluta la diagnosi, assoluto
il rimedio, assoluto il dovere,
che il Machiavelli indica
all'uomo, dì non esser mai
inferiore alle situazioni
storiche, ma di prevederle, nei
modi da lui descritti, e dì
dominarle. Donde anche la
crudezza della "politica" di
Machiavelli, la sua implacabile
freddezza nell'assumersi ì mezzi
più spietati: crudezza e
implacabilità che non sono se
non fedeltà rigorosa alle
premesse sulla situazione
dell'uomo nel mondo, sul suo
dovere di non riuscir mai
inferiore alle circostanze. Il
Principe è dunque una
costruzione rigorosissima della
"virtù" umana, un'indicazione
dei modi con cui sì "debbe"
resistere e reagire alle
circostanze, alla "fortuna". Ma
la fortuna non è mai dimenticata
un istante nel corso della
costruzione che vuole negarla:
donde il tono drammatico
dell'opera, il sapore concreto
della polemica dì Machiavelli.
Non diversa la trama dei
concetti che sta alla base dei
Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio, che il Machiavelli
iniziò nei primi mesi del 1513,
e quindi interruppe per comporre
il Principe, e riprese più tardi
tra il 1515 e il 1517. Non
diverso, ad esempio, il concetto
della virtù, quello della
fortuna, quello della politica:
e si comprende facilmente che
sia
così. Ma profondamente diverso è
invece il quadro storico e
politico che essi presuppongono,
la concezione generale che il
Machiavelli vi esprime. Nel I
libro, il suo scopo è
essenzialmente dì comprendere le
ragioni profonde della crisi
politica italiana, fuori dei
facili motivi della polemica
immediata: e la storia romana
che il Machiavelli descrive e
analizza come la storia del
popolo che meglio di ogni altro
riuscì nella difficile impresa
di fondare un grande Stato,
questa storia non è che lo
schema ideale della sua dottrina
politica, il dover essere
rispetto al quale la storia
reale dì Firenze e dell'Italia
svela tutte le sue
contraddizioni e le sue miserie.
Perché a Firenze le lotte dei
partiti si esaurirono sempre nel
gioco vano delle vittorie e
delle sconfitte, dei bandi e
delle confische, delle
persecuzioni e degli esilii,
senza che mai al dì sopra
dell'interesse angusto delle
parti sì riuscisse a scorgere
l'interesse più alto dello
Stato: laddove a Roma le lotte
tra ì due " ordini: il patrizio
e il plebeo, furono la ragione
stessa della grandezza e della
potenza dì quello Stato, in
virtù delle utili indicazioni
che esse offrirono a legislatori
prudenti, pronti a tradurre
quelle indicazioni nelle leggi e
negli ordini dello Stato.
Lo Stato non è infatti solido e
duraturo quando si fondi su una
classe e ne lasci un'altra ai
suoi margini, a coltivare la sua
ostilità e la sua vendetta, ma
sì quando le sue leggi e i suoi
ordini siano il risultato di
tutte le tendenze e dì tutti gli
"umori" racchiusi nel suo seno.
Per questo, la storia dì Roma
appare al Machiavelli come quel
che la storia di Firenze avrebbe
dovuto essere per concretarsi in
validi risultati: e l'Incontro
dì queste due tradizioni
storiche dice la profondità
dell'analisi politica
machiavelliana, che è nei
Discorsi tanto più comprensiva
dì quella svolta nel Principe
quanto maggiore e più intensa è
la forza della sua meditazione
sulla storia d'Italia.
Da questo punto di vista, il II
libro dei Discorsi rivela un
clima generale profondamente
diverso: maturato e scritto dopo
il fallimento pratico del
Principe, in una epoca in cui la
lotta tra le grandi potenze
europee per il predominio in
Italia andava sempre più
chiaramente dimostrando a quale
destino gli Stati italiani
stavano inevitabilmente andando
incontro, il Machiavelli vi
esprime l'amarezza del suo
animo, la convinzione
rabbiosamente polemica che quel
destino avrebbe benissimo potuto
essere evitato se i principi
avessero seguito il grande
esempio dei Romani. Inesperienza
politica, cieca fiducia in
istituzioni che nessuna seria
forza sorreggeva, incapacità
militare: tutti i vecchi motivi
della polemica machiavelliana
tornano in queste pagine
mirabili con una violenza che
non ha riscontri nelle
precedenti opere: ma ciò che
caratterizza questa
ineluttabilità dì quel corso dì
cose, è la fine completa dì
tutte le speranze.
Ché se talvolta il Machiavelli
osserva che ì principi italiani
potrebbero ancora cambiare il
loro destino se solo imitassero
ì Romani, il rilievo ha
essenzialmente la funzione dì
rendere ancora più aspra la
polemica contro una classe
politica che nessuna dura
lezione (e il Machiavelli ne era
convinto) avrebbe richiamato
alla serietà della vita
politica. Questi son dunque ì
motivi che costituiscono il
sostrato del II libro (il III
libro, composto dì capitoli
episodici e non fusi in un
tutto, è decisamente meno
importante); e il medesimo amaro
sentimento di sfiducia domina ì
sette libri dell'Arte della
guerra composti tra il 1519 e il
1520 per fare il punto su tutte
le sue idee intorno alla milizia
e ai grandi problemi della
strategia militare. Nelle parole
del protagonista del dialogo,
Fabrizio Colonna, che
malinconicamente rimprovera la
fortuna dì non avergli concesso
dì tradurre nella pratica la sua
lunga meditazione sugli ordini
romani, è il riflesso di questo
stato d'animo del Machiavelli,
che può bensì ancora scrivere la
grande invettiva contro ì
principi ignoranti e corrotti,
ma senza che una concreta
prospettiva politica dia ormai
senso e mordente pragmatico a
quelle sue parole.
Nella Vita di Castruccio
Castracani (1520), breve saggio
storico in cui sì narrano,
idealizzandole e attribuendo il
loro finale fallimento
all'irrazionale capriccio della
fortuna, le imprese del grande
capitano lucchese, questo senso
di lontananza delle cose e dì
amara rassegnazione dinanzi al
cieco fluir del tutto, è la nota
dominante. E il medesimo
sentimento umano è, contro ogni
apparenza, quello che
caratterizza la Mandragola, la
maggiore delle sue commedie - la
Clizia è d'ispirazione assai
meno originale, e l'Andria è dì
strettissima imitazione
terenziana - è certamente il
capolavoro del suo genio
d'artista. Perché, il
Machiavelli non fu solo grande
pensatore politico, ma anche
scrittore e artista dì
eccezionali qualità: e ignorare
queste non sì potrebbe senza
toglier qualcosa alla nostra
capacità dì comprenderlo nella
sua interezza. Non sì può quindi
intendere interamente il
Machiavelli se non sì tiene
presente la sua varia e
abbastanza vasta attività dì
letterato. Se i suoi
componimenti in versi, dai due
Decennali, ai Capitoli,
all'Asino d'oro, valgono più per
qualche efficace e icastica
battuta polemica, che per un
intrinseco valore letterario,
ben diverso è il significato
della prosa machiavelliana, e
non solo di quella delle opere
letterarie, ma altresì delle
opere politiche, dal Principe,
il capolavoro stilistico dei
Machiavelli, alle Istorie
fiorentine.
Nel Principe, l'andamento
dialettico dell'opera, con
quell'intima opposizione dì tesi
diverse che la virtù umana ha il
supremo dovere dì unificare,
trova la sua espressione in una
prosa dì eccezionale potenza
dimostrativa, lucida e incisiva
nell'impostazione dei problemi,
implacabile nell'indicarne la
soluzione, tesa e polemica nel
distruggere ogni opinione
inadeguata alla logica
inesorabile della realtà: quasi
che il sovrumano sforzo del
principe nuovo di vincere il
fiume straripante della fortuna,
coincidesse strettamente con
quello del Machiavelli dì
risolvere tutte le
contraddizioni della realtà, e
dì innalzare una costruzione
perfetta, assolutamente
inattaccabile dai colpì potenti
della fortuna. La medesima
caratteristica ha la prosa dei
Discorsi e delle altre grandi
opere del Machiavelli, dall'Arte
della guerra alle Istorie
fiorentine: ma qui la minore
tensione pragmatica fa al che ì
toni siano in genere meno
drammaticamente serrati, e alla
drammaticità senza respiro del
Principe subentri a tratti un
più pacato andamento
classicheggiante, che non dà
mai, per altro, nel pedantesco e
nell'esteriore.
Ché caratteristica suprema dello
stile machiavelliano rimane
sempre una logica stringente, il
taglio rigoroso dei periodi e
dei concetti. Una prosa
originale e modernissima, che
non ha riscontri in tutta la
letteratura italiana. I1
capolavoro letterario del
Machiavelli rimane comunque,
senza possibilità di dubbi, la
Mandragola, composta nel 1518.
È, come la Clizia e l'Andria,
una commedia in cinque atti,
esteriormente desunta da modelli
classici, ma, come la Clizia,
ambientata a Firenze negli anni
stessi in cui il Machiavelli
viveva, negli anni tormentosi e
drammatici delle guerre
d'Italia.
E l'ambientamento contemporaneo
non è senza profonde ragioni e
senza grande significato:
perché, come lo scopo del
Machiavelli è polemico, così la
società da colpire non poteva
essere che quella presente,
quella in cui il Machiavelli
viveva, quella di cui egli aveva
sperimentato fino in fondo le
contraddizioni e la miseria.
Contraddizioni e miseria che
sono attributi, nella commedia,
non solo dei personaggi più
evidentemente negativi, come
messer Nicia e frate Timoteo, ma
altresì dei personaggi a loro
modo virtuosi, come Callimaco e
Ligurio: non solo dei personaggi
ingannati, ma altresì di quelli
che ingannano. E la drammaticità
della Mandragola non è nella
satira spietata di certi tipi
umani e sociali, ma nel fatto
che gli eroi di questa commedia
parlino il linguaggio e agiscano
secondo gli schemi delle grandi
opere del Machiavelli pensatore
politico, e così facendo
avviliscano una logica creata
per la fondazione e la
conservazione degli Stati nei
più bassi intrighi, nelle più
improduttive azioni umane. È il
medesimo contrasto (finemente
sottolineato in una bellissima
lettera di Francesco
Guicciardini), presente
drammaticamente nella vita del
Machiavelli, che aveva trattato
con re e con principi, e ora era
costretto, negli anni della sua
maggiore saggezza, ad andare a
Carpi, in legazione presso un
Capitolo di frati minori.
L'ultima opera del Machiavelli,
le Istorie fiorentine, fu
iniziata nel 1520 e conclusa nel
1526, quando la sua narrazione
era giunta alla morte di Lorenzo
dei Medici e all'alterarsi
dell'equilibrio politico
italiano. È opinione diffusa che
il pregio propriamente storico
di quest'opera sia inferiore
alla forza delle dottrine
politiche che lo scrittore vi
introduce, e che la storia vi
sia un po' l'ancella della
dottrina politica. Ciò che è
troppo semplice per essere,
senz'altro, vero. Che vi siano
parti deboli o non
sufficientemente elaborate, che
in certi punti la passione
politica abbia preso la mano
allo scrittore, si può
concedere: ma le Istorie
nascevano sul fondamento di un
pensiero politico troppo nutrito
di senso storico, perché,
ponendosi di fronte alla storia
della sua città, il Machiavelli
non sentisse tutta l'inutilità
di andar confermando le sue
dottrine con quella storia.
Di fatto le pagine in cui son
descritte le lotte fra i partiti
fiorentini, le pagine in cui si
narra dei Ciompi e delle cause
profonde della loro violenta
sommossa, quelle in cui lo
scrittore distrugge la tesi (che
non sarà estranea al
Guicciardini) che il periodo
detto dell'equilibrio sia un
periodo aureo della storia
italiana, queste pagine e altre
ancora, son così piene di
penetrazione storica, da rendere
più che legittima una ripresa
del problema complesso
dell'ultima opera del
Machiavelli.Può darsi che, nel
complesso, in lui il pensatore
politico sia superiore allo
storico: ma questo non autorizza
a dire, di fronte a tanti
documenti attestanti il
contrario, che in lui lo storico
taccia affatto di fronte al
pensatore politico. Il
Machiavelli morì in "somma
povertà" e (come scrisse un suo
figliuolo) nel 1527: con le
Istorie fiorentine l'arco del
suo pensiero si era
perfettamente concluso.
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Gennaro
Sasso | |
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