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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XIX
La terza
bolgia, dall’alto del ponte che
la sovrasta, appare. interamente
disseminata di buche circolari.
Da ciascuna di queste spuntano
le gambe di un dannato confitto
in essa a testa in giù e con le
piante dei piedi lambite dalle
fiamme. I peccatori che la
giustizia divina cosi punisce
sono i simoniaci, coloro cioè
che hanno fatto commercio delle
cose sacre.
Dante ferma la sua attenzione su
di uno che agita le gambe con
impeto più disperato degli altri
e che è tormentato da un fuoco
più doloroso. Perché il suo
discepolo possa apprendere da
questo dannato i motivi che lo
indussero ad infrangere la legge
di Dio, Virgilio lo porta sul
fondo della bolgia. Invitato a
parlare, il peccatore apostrofa
Dante chiedendogli il motivo del
suo arrivo nel regno dell’eterno
dolore prima del termine a lui
prescritto lo ha infatti
scambiato per Bonifacio VIII,
destinato a prendere il suo
posto all’apertura della buca
dei papi simoniaci. Dopo aver
compreso il suo errore, rivela
la propria identità: fu Niccolò
III, della stirpe rapace degli
Orsini; E’ dannato per aver
favorito in modo fraudolento i
propri familiari.
Il posto di Bonifacio VIII sarà
poi occupato da un altro
pontefice, ancora più
scellerato, Clemente V. Travolto
dall’indignazione, Dante
prorompe i n una violenta
invettiva contro la sete di beni
materiali che ha allontanato i
vicari di Cristo dai compiti che
loro assegnò il divino Maestro e
ravvisa nella Chiesa avida di
potere e di ricchezze il mostro
dalle sette teste e dalle dieci
corna di cui parla l’Apocalisse.
Ricorda quindi con dolore la
donazione di alcuni territori
che l’imperatore Costantino fece
a papa Silvestro, origine prima
del potere temporale dei
pontefici e delle discordie che
travagliano l’umanità. Poi
Virgilio lo riporta sull’argine
che separa la terza bolgia dalla
quarta e di lì sul ponte che
scavalca quest’ultima.
INTRODUZIONE CRITICA
Nella prima parte dell’Inferno
la polemica politica di Dante ha
per oggetto la storia di Firenze
a partire dal 1215, l’anno
fatale in cui l’offesa arrecata
da Buondelmonte dei Buondelmonti
alla famiglia degli Amidei portò
alla divisione degli abitanti
della città in Guelfi e
Ghibellini. E’ storia recente,
rispetto ai tempi del Poeta,
sono episodi di sangue, odi
covati e trasmessi di
generazione in generazione
nell’isolamento delle mura
cittadine. E’ stato osservato
che Dante ha spesso delle
vicende della sua città una
visione angusta e
municipalistica e che, ad
esempio, nel canto quindicesimo,
"le puntate cittadinesche contro
Fiesole, il frizzo sulla cecità
dei Fiorentini, i proverbi"
delineano una Firenze minore,
stretta nelle sue mura,
rievocata anche nel linguaggio
casalingo" (Bosco). Ma Dante non
si limita - e in ciò è la
grandezza dei suo messaggio,
anche quando le soluzioni da lui
additate appaiono, sul terreno
dei fatti, utopistiche o
semplicemente irrealizzabili
perché tendenti a ripristinare
il passato - a dar sfogo ai suoi
risentimenti di uomo di parte e
di esule, né, d’altra parte,
intende fare opera di cronista.
L’indagine cui egli sottopone
gli eventi politici mira a
ricondurli, non diversamente da
ogni altra forma di agire umano,
in uno spazio etico, in una
regione di norme inaccessibili
all’errore.
La politica in quanto sfera
autosufficiente e chiusa in se
stessa è una creazione del
Rinascimento. Per il pensiero
medievale essa non può essere
scissa dalla totalità dell’agire
umano: nell’operare politico,
come in qualsiasi accadimento
che ha la sua radice nella
libertà del nostro volere, si
svela un’intenzione volta ad
affermare o a negare Dio e il
mondo che in Dio,
trascendendosi, si afferma e si
ordina. Per questo. Dante può
trascurare l’analisi dei moventi
esclusivamente pratici,
circoscritti nel tempo al
conseguimento di fini
particolari, che determinano
l’azione politica per questo,
nella sua visione degli eventi,
sorretta da una fede sempre più
salda a mano a mano che
l’avverarsi del suo ideale di
giustizia sembra farsi più
improbabile e remoto, egli non
riesce a definire altrimenti che
come decadimento e corruzione
radicati nell’avarizia il
faticoso emergere, tra la fine
del secolo XIII e il principio
del XIV, di nuove strutture
economiche e sociali e di nuovi
istituti politici.
Nel canto diciannovesimo per la
prima volta la visione di Dante
abbraccia il destino
dell’umanità intera, preda
dell’anarchia in seguito
all’abuso che la Chiesa ha fatto
della dote di Costantino. La
donazione di Costantino, sulla
quale appariva nel Medioevo
legittimamente fondato il potere
temporale dei papi, era, ai
tempi del Poeta, al centro delle
discussioni che vedevano
schierati in campi opposti
giuristi guelfi e ghibellini.
Nella Monarchia Dante interpreta
questa donazione, del cui testo
pare non abbia avuto conoscenza
diretta, nel senso che
Costantino si limitò a
"costituire un patrimonio
ecclesiastico per sovvenire ai
bisogni dei clero e dei poveri,
fermo restando il superiore
dominio dell’impero sui beni
assegnati alla Chiesa" (Nardi).
Ma, secondo Dante, il bene
operar dell’imperatore romano
fe’ mal frutto, poiché
"nonostante l’intenzione sacra e
benigna del donatore, la
donazione costantiniana, così
come venne interpretata da chi
l’accettò, fu cagione di grave
danno alla Chiesa e all’umanità"
(Nardi). Il peccato di simonia
colpito nella terza bolgia ha
quindi un’origine storica:
l’umanità redenta dal sacrificio
del Cristo si è nuovamente
allontanata dal suo Fattore e ha
cominciato, dietro l’esempio di
coloro che avrebbero dovuto
guidarla a Lui, a fare oggetto
della propria adorazione non il
principio della vita, il Verbo,
ma pezzi di materia lucente:
fatto v’avete Dio d’oro e
d’argento. Non diversamente, nel
racconto biblico, gli Ebrei,
perduta la fede nel ritorno di
Mosè dal monte Sinai, si erano
lasciati persuadere a fare
oggetto delle loro preghiere e
dei loro sacrifici un vitello
d’oro. Le affinità fra lo stile
dell’episodio dei simoniaci,
basato sull’invettiva e sulla
visione profetica, e quello
biblico, sono molteplici ed
evidenti, ma occorre anzitutto
cogliere la disposizione d’animo
rigorosa ed intransigente,
comune sia a Dante che agli
agiografi, nei confronti di chi
subordina le ragioni dell’eterno
a quelle del contingente.
L’Indignazione di Dante prorompe
in questo canto in accenti di
inusitata asprezza proprio
perché a promuovere in terra la
religione dei beni materiali e
la corruzione che ne è derivata
sono stati coloro ai quali
Cristo ha affidato il compito di
custodire la sua Parola. La
simbologia complessa che
percorre il canto è di
derivazione biblica, ma non
resta lettera morta, semplice
imitazione o parodia, secondo
quanto ritiene il D’Ovidio, del
modo di parlare degli
ecclesiastici che hanno agito in
modo contrario ai dettami della
fede. Essa commuove il Poeta fin
nel profondo, carica com’è di
allusioni ad una vicenda
sovrannaturale, per cui le
singole immagini (spose...
avolterate... matre... patre ...
), nel tradurre in termini di
consanguineità i rapporti
stabilitisi fra una realtà umana
e Dio, riflettono la stessa
immediatezza aspra e solenne che
caratterizza le immagini
bibliche. Ma in Dante rivive non
soltanto l’accesa religiosità
dei profeti d’Israele, ma anche
il severo metodo della
Scolastica, poco propizio
all’amplificazione dei
sentimenti quanto portato ad
estendere a tutti gli aspetti
del reale il rigore del
procedimento deduttivo. La su
poesia nasce proprio dal
contrapporsi dialettico di un
fortissima istanza passionale e
di una non meno forte esigenza
di ordine e di logicità. Di qui
deriva, nel canto
diciannovesimo, che le singole
immagini appaiono legate fra
loro da i lessi di pensiero
oltre che di sentimento. Il
Sanguineti ha parlato in
proposito di "un puntualissimo
immaginare deduttivo", di un
"sillogizzare... che non viene
già traducendosi, di momento in
momento, in immagine, ma in
immagine appunto, in figura
originariamente germina, in
figurati emblemi viene
immediatamente disviluppando la
propria trama".
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