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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXXIV
Dante e
Virgilio entrano nella quarta
zona di Cocito, chiamata
Giudecca, dove soffrono coloro
che tradirono i loro
benefattori.
Qui nessuna delle anime dannate
parla, nessuna e’ identificata:
imprigionate totalmente nel
ghiaccio, si possono appena
intravedere, immobili nelle più
diverse posizioni: supine, ritte
in piedi, capovolte, piegate ad
arco. Nell’aria opaca che grava
sulla palude gelata comincia a
delinearsi un’enorme sagoma,
come un mulino le cui pale
girino nel vento: è la mole
gigantesca di Lucifero piantato
fino a mezzo il petto nella
palude.
Il re dell’inferno ha tre facce,
quella anteriore è rossa, quella
sinistra è nera e quella destra
è gialla; le tre bocche
maciullano senza posa tre
peccatori, che tradirono le due
supreme autorità, la spirituale
e la temporale: Giuda, Bruto e
Cassio; Giuda, per maggiore
tormento, è straziato di
continuo dagli artigli del
mostro. Agitando le sue tre paia
d’ali di pipistrello Lucifero
genera il vento che fa
ghiacciare Cocito.
Ormai i due poeti hanno visto
tutto l’inferno ed è tempo di
uscire; Dante si avvinghia al
collo di Virgilio che scende
aggrappandosi ai peli di
Lucifero nello spazio tra il
corpo villoso di Satana e il
ghiaccio che lo imprigiona.
Giunto al centro del corpo del
mostro (corrispondente al centro
della terra) Virgilio si
capovolge e prosegue con il suo
discepolo attraverso una stretta
galleria, mentre Dante gli
chiede alcune spiegazioni,
finché giungono alla superficie
della terra.
INTRODUZIONE CRITICA
Dopo la tensione altissima del
dramma del conte Ugolino e il
"furore biblico" dell’invettiva
contro Pisa, il canto precedente
si chiudeva in tono minore,
calando gradualmente dallo
sdegno violento al disprezzo
beffardo dell’invettiva contro i
Genovesi. Di questo tono minore
partecipa anche l’ultimo canto
dell’Inferno, con il quale Dante
sigilla il primo tempo della
"meditazione trinitaria" intorno
alla realtà spirituale dell’uomo
(non essendo i tre regni altro
che fasi di un solo processo di
caduta e di redenzione) e, nel
finale, prepara il lettore alla
dolce visione della marina del
purgatorio. Il canto trova la
sua unità attorno alla figura
mostruosa di Lucifero, che
domina e soverchia ogni altra
immagine e la sua comparsa, già
misteriosamente preannunciata
nel canto XXXIII (versi
100-105), è preparata con
sapienza. La solennità del verso
latino iniziale - vexilla regis
prodeunt inferni - infonde quasi
un senso di religioso orrore,
mentre la massa bruta del mostro
"viene innanzi lentamente
attraverso l’atmosfera scura e
lontana, con lineamenti prima
indefiniti, e domina
paurosamente sulla squallida
distesa..." (Momigliano).
Il pellegrino, che di cerchio in
cerchio aveva sperimentato,
giudicato, combattuto il mondo
del peccato, accosta
faticosamente il simbolo del
male in un orizzonte cupo e
grigio, dove si dissolvono tutti
i più violenti colori del mondo
infernale (che erano pur sempre
emblemi di vita, anche se di una
vita dannata), in un silenzio
dove tutte le grida di dolore o
di maledizione che lo hanno
accompagnato, restano
imprigionate nel ghiaccio.
Lo sfondo non potrebbe essere
architettato con maggiore
efficacia, ma quando la figura
di Lucifero si avvicina e si
precisa, Dante, dopo averlo
sbozzato con un tratto potente
(lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo il petto uscìa fuor
della ghiaccia), si affanna
impacciato, cerca approssimative
precisazioni, usa iperboli ed
esclamazioni. Proprio per questo
numerosi commentatori negano la
poeticità del più gigantesco
personaggio dell’Inferno.
Secondo il Grabber "il colossale
in Lucifero non raggiunge un
vigore poetico adeguato" perché
la sua figura "è costruita con
un ritmo piuttosto faticoso e
frammentario". Il Romani ritiene
che "questo mostro immane, con
l’inutile corpaccio morto, non
vale neppur uno di quei suoi
ministri, pieni di maliziosa
gaiezza i quali portano la viva
luce del comico sulla sudicia
bolgia dei barattieri ".
Tuttavia l’apparizione di
Lucifero è sconcertante e
grandiosa e ci riporta all’íconografia
di tanti affreschi e mosaici
medievali, in cui lo sforzo di
rappresentare il simbolo vivente
del male libera la fantasia
dell’artista da ogni freno
immergendola nel mondo
dell’orrido. Anche se non si può
negare che Dante abbia
conosciuto molte tradizioni
iconografiche letterarie e
figurative, nella costruzione di
Lucifero, nella sua struttura
che poggia su salde basi
dottrinali è evidente un senso
di equilibrio e di misura, il
quale ha impedito ogni
esasperazione grottesca che
poteva sconfinare nell’ingenuità
o tradursi nel virtuosismo. E’
quindi giusto riconoscere la
prodigiosa originalità di questa
creazione che nella fantasia del
Poeta vuole essere "il bestiale
contrapposto della Trinità... la
sintesi morale e pittorica della
perversione morale e fisica del
regno del male" (Momigliano).
Preparato già nel primo canto,
dove le tre belve sono "una
demoniaca processione di una
Trinità inferna, una sostanza in
tre persone, l’una dall’altra
procedendo, dalla Cupidigia la
Violenza, e dalla Cupidigia e
dalla Violenza insieme
l’invidiosa Frode, l’amor del
Male" (Apollonio), l’emblema
della trinità demoniaca "che
capovolge nel Male le
aspirazioni del Bene, e
irrigidisce nell’amor di sé il
richiamo dell’amor divino...
opera nella prima cantica, giù
giù traboccando dal triforme
Cerbero al triforme Gerione al
triforme Lucifero", finché
quelle "aspirazioni" attraverso
il centro della terra saliranno
verso la Trinità divina
("s’intende molto facilmente che
le tre facce di Lucifero sono in
antitesi con i tre cerchi di tre
colori che il Poeta poi ci dirà
‘ di aver veduti in Dio" secondo
l’affermazione del Pietrobono
che si riporta ai versi 115120
del canto XXXIII del Paradiso).
Dante rappresenta Satana quale
un immenso ammasso di materia
quasi inerte, perché questa,
secondo la filosofia scolastica,
essendo pura potenza, passività
quasi assoluta, si avvicina di
più al non essere, al nulla. "Il
riassunto di tutti i mali
d’inferno è là, in quella
montagna di materia torpida, la
fonte di tutto il pianto del
mondo è là, in quel gigante che
piange con sei occhi,
grottescamente, la suggestione
precipite delle tre Bestie si
spenge in quelle tre Facce, la
superbia negatrice di Farinata
si addormenta gelida e tetra in
quel mostro che da mezzo il
petto uscia fuor della ghiaccia,
la monotonia dei tormenti
infernali, eterni, si ripete nel
gesto monotono con cui dirompe
coi denti, a guisa di maciulla,
un peccatore..." (Apollonio)
Poiché Lucifero è la "Trinità
inferna", di fronte a questo
abisso del male la parola non
riesce più ad esprimere:
l’impotenza a dire del Poeta ha
anche questo significato. E il
silenzio di Lucifero e dei
dannati della Giudecca (anche
Bruto si storce e non fa motto),
la mancanza di ogni dialogo,
l’assoluta indifferenza segnano
il distacco definitivo di Dante
dal male dopo la lunga
meditazione sul peccato: ...
oramai è da partir che tutto
avem veduto (versi 68-69).
Nel finale (versi 127-139)
l’atmosfera infernale ormai si
sta dissolvendo, la terra
partecipa più animatamente alle
vicende spirituali. Il viaggio
viene consumato in silenzio, ma
con l’accompagnamento discreto
di quel ruscelletto che discende
in basso. Anche il linguaggio
del Poeta muta stile e accento,
preludio alla dolcezza dell’alba
sulla spiaggia
dell’antipurgatorio.
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