|
|
|
DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
|
|
|
|
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
|
|
|
| |
| | |
DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
 |
 |
 |
 |
CANTO IX
Dopo
essere tornato presso Dante,
Virgilio riacquista la propria
serenità e incoraggia il suo
discepolo ricordandogli di
essere già disceso una volta
fino al fondo dell’inferno.
All’improvviso, sull’alto delle
mura fortificate di Dite
compaiono le tre Furie, mostri
con sembianze di donna e chiome
formate da un intrico di
serpenti. Esse manifestano la
loro ira per la presenza dei due
poeti, dilaniandosi con le
unghie, percuotendosi e gridando
in maniera terrificante. Ma da
sole sono impotenti a punire il
vivo che ha osato violare la
dimora della morte; per questo
invocano a gran voce Medusa, la
Gorgone che ha il potere di
trasformare in pietra chiunque
la guardi. Virgilio invita il
suo discepolo a volgere le
spalle, ed egli stesso gli copre
gli occhi con le mani. Ma da
lontano si preannuncia ormai
l’arrivo del messo celeste. Lo
precede un fragore d’uragano,
mentre davanti a lui, che avanza
sereno sulla palude stigia senza
nemmeno bagnarsi le piante dei
piedi, i dannati, in numero
sterminato, si danno alla fuga.
Virgilio esorta Dante ad
inginocchiarsi, ma l’angelo non
degna i due pellegrini di uno
sguardo: altre preoccupazioni
sembrano dominare il suo animo.
Giunto davanti alla porta della
città di Dite, la tocca con un
piccolo scettro ed essa si apre
senza difficoltà. Prima di
ripercorrere il cammino per il
quale è venuto, il messo
rimprovera i diavoli per
l’opposizione ai voleri
dell’Onnipotente e ricorda la
sorte toccata a Cerbero per aver
voluto opporsi ad Ercole che era
disceso negli Interi.
Allontanatosi l’angelo, i due
viandanti penetrano nell’interno
della città: davanti a loro si
apre una grande pianura cosparsa
di tombe, che richiama alla
memoria di Dante le necropoli
romane di Arles e di Pola. Ma
qui i sepolcri, tutti aperti,
sono arroventati dalle fiamme.
In essi si trovano le anime
degli eretici. I due poeti si
incamminano lungo un sentiero
che corre tra le mura e le tombe
infuocate.
INTRODUZIONE CRITICA
I canti ottavo e nono
ripropongono le perplessità, i
dubbi, i terrori dell’anima di
fronte al peccato, una
situazione analoga, cioè, a
quella in cui Dante si è trovato
alla uscita dalla selva. Anche
qui tema dominante è quello
della umana insufficienza; ma,
mentre nei due canti iniziali
l’aiuto divino si era concretato
in un uomo, Virgilio, poeta e
saggio, espressione al tempo
stesso di un modello insuperato
di civiltà (l’impero romano) e
della ragione eterna, pura di
specificazioni storiche, qui
l’intervento sovrannaturale è
assai più diretto e miracoloso:
nella persona dell’angelo è
infatti sensibilmente
prefigurata la Grazia. Ora
infatti che l’inferno "alto" ,
luogo di pena per coloro che
peccarono passionalmente, quasi
per una sovrabbondanza della
forza vitale, ha finito di dare
al peregrinante i suoi
insegnamenti, ora che alla vista
del Poeta appare la fortezza che
racchiude il male più grave,
l’umanissimo Virgilio, dolce
padre, amico e maestro
premuroso, guida fin qui sicura,
rivela egli stesso la propria
imperfezione, i limiti da Dio
assegnati all’uomo. Il Vossler
ha opportunamente diviso il
grande dramma religioso che si
svolge dalla metà del canto
ottavo fin quasi al termine del
nono in quattro atti. Primo
atto: l’anima, in quanto non
definitivamente acquisita al
male, è respinta dai diavoli
(Dante è ancora in vita, ha la
possibilità di redimersi, non è
morto al richiamo della Grazia).
Secondo atto: la ragione
(Virgilio) tenta di indurre la
malizia a riconoscersi
sconfitta; ma questa, avvertito
il pericolo, fugge. Terzo atto:
il male, al fine di prevalere su
colui che vuole smascherarlo,
evoca le sue forze più
pericolose: non le seduzioni
esterne alle quali la ragione
saprebbe resistere, bensì le
angosce interne, i rimorsi (le
Furie). L’anima, se assistita
dalla ragione, non ha motivo di
temerle (Virgilio invita Dante a
guardare le Furie e gliele
nomina). Essa deve però
respingere quella che del male è
la tentazione più nefasta, la
disperazione (Medusa). Quarto
atto: a sconfiggere il male deve
intervenire - dopo che l’anima e
la ragione si sono impegnate ed
hanno compiuto i loro tentativi
di resistenza - la grazia divina
(il messo celeste). Il nono è
fra i canti più ricchi di
riferimenti a simboli, leggende
e figurazioni della mitologia
pagana. Il De Sanctis ha detto
che Dante se ne serve come di
"materiale di costruzione",
nello stesso modo in cui i
cristiani del Medioevo si
servivano di colonne e ruderi
romani per le loro chiese. Ma
questa affermazione va in parte
corretta: non si tratta di
semplice "materiale". Sia pure
strappati dal loro contesto
storico, gli elementi della
cultura pagana conservano nella
Commedia qualcosa dei loro
antichi significati. In tutto il
poema è, infatti, continuamente
ribadita la continuità etica e
culturale fra mondo precristiano
e mondo cristiano, non
diversamente da come in San
Tommaso e in Sant’Alberto Magno
una medesima linea di pensiero
congiunge, gerarchicamente
graduandole, natura e
rivelazione, filosofia greca e
Sacra Scrittura, vita morale e
santità. Questa fortissima
esigenza unitaria, per la quale
nessun aspetto del reale viene
respinto (la gloria di Dio
risplende, per quanto in una
parte più e meno altrove,
ovunque nell’universo, come è
detto nella terzina di apertura
del Paradiso), spiega come, per
Dante, anche negli dei falsi e
bugiardi, assunti in funzione
simbolica, brilli qualche idea
del divino.La riabilitazione del
mondo classico sarà compiuta
esplicitamente, senza
giustificazioni religiose, dagli
umanisti del Quattrocento, ma
qualcosa del loro sentire si è
voluto scorgere anche in Dante e
si è parlato (Sapegno) della
"fiducia ingenuamente
preumanistica dello scrittore
nella validità poetica, e quindi
anche simbolica e immediatamente
persuasiva, della cultura
letteraria consegnata ai grandi
poemi classici". Ma il richiamo
alle favole mitologiche nella
Commedia ha una funzione opposta
a quella che svolgerà nella
cultura umanistica: la mitologia
non viene infatti accolta
nell’universo poetico di Dante
in quanto elemento evasivo, di
fuga dal reale, di nobile
distacco dalla condizione del
dolore, ma dal Poeta è volta a
confermare, oltre ogni
differenza di linguaggio e
cultura, una verità che non
ammette né restrizioni né
deroghe né accomodamenti: quella
dell’impegno totale e
responsabile dell’uomo nel
mondo. Tuttavia, se la grande
rappresentazione drammatica
davanti alla porta di Dite
riflette indubbiamente una
concezione allegorica, essa la
traduce poi in scenografia ed
azione. Come le due distese
orizzontali, la nera maremma del
fango e la fiammeggiante
necropoli dell’eresia,
ingigantiscono la verticalità
delle mura - enormi nel desolato
riverbero, quasi di ferro appena
uscito dal fuoco - della città
del male (un dato reale, un
paesaggio medievale urbano,
vallo, torri, porte, sentinelle,
su cui l’anima fa incombere
l’ombra del giudizio di Dio),
così due zone di silenzio (i
dannati, le loro pene, le loro
espressioni di dolore sono
passati in secondo piano;
l’attenzione del Poeta si volge
tutta al "mistero" che ha luogo
davanti ai suoi occhi e ha per
oggetto il suo stesso destino)
isolano nella sua unicità
esemplare la scena del decisivo
confronto tra le forze del male
e il ministro del volere di Dio.
L’arrivo del messo si
preannuncia sul piano
dell’analogia fin dagli inizi
del canto ottavo, allorché
fuochi nella notte, improvvisi
segnali di guerra, introducono
una nuova dimensione, allucinata
e febbrile, nel poema. Ma, nella
sua compostezza plastica e
morale, l’angelo mostra di
sdegnare le umane trepidazioni.
Mentre infatti le forze del bene
si misurano con quelle del male
in un clima di epopea e intorno
all’anima umana si affrontano
come eroi dei poemi
dell’antichità, Dante nei suoi
dialoghi con Virgilio, pieni di
reticenze, di curiosità
impacciata, dà voce all’umana
viltà, nota ai confini del
comico, sempre presente, anche
nel cuore della tragedia, nella
complessità della vita.
|
|
|
| |
 |
 |
 |
 | |