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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XX
Poiché
l'anima di Adriano V lo ha
esortato a proseguire il
cammino, Dante procede accanto
alla sua guida, badando a non
calpestare le anime degli avari
e dei prodighi distese bocconi a
terra. Dopo aver apostrofato
duramente il peccato di
avarizia, fonte di tanto male,
il Poeta ode una voce che
ricorda piangendo tre esempi,
due di povertà e uno di
liberalità: quello della
Vergine, quello del console
romano Fabrizio, quello del
vescovo di Bari, San Nicola.
L'anima che ha parlato è quella
di Ugo Capeto, iniziatore della
dinastia francese dei re
capetingi, il quale apre una
durissima requisitoria contro i
suoi discendenti colpevoli della
corruzione dilagante nel mondo:
Carlo I d'Angiò, che provocò la
morte di Corradino di Svevia e
di San Tommaso d'Aquino, Carlo
di Valois, che concorse ad
aumentare la lotta e i disordini
interni di Firenze, Carlo II
d'Angiò, che diede in sposa la
giovanissima figlia Beatrice ad
Azzo VIII d'Este in cambio di
una somma di denaro, Filippo il
Bello, che f u responsabile del
triste episodio dì Anagni ai
danni di Bonifacio VIII, oltre
che della persecuzione contro
l'ordine cavalleresco dei
Templari, sono gli esempi più
famosi, e più vicini nel tempo,
della politica francese guidata
solo dalla violenza e dalla
cupidigia. Infine Ugo Capeto
rivela che i penitenti del
quinto girone durante il giorno
recitano esempi di povertà e di
liberalità, mentre durante la
notte rievocano esempi di
avarizia punita. Allorché Dante
e Virgilio si sono allontanati
da Ugo Capeto, un terremoto
scuote all'improvviso il monte
del purgatorio, mentre tutte le
anime intonano il canto del
«Gloria in excelsis Deo».
INTRODUZIONE CRITICA
In virtù di quali caratteri
l'oratoria di Ugo Capeto, una
delle più acri e roventi pagine
polemiche della Commedia,
diventa poesia ed entro quali
limiti questa conversione
dell'immediatezza passionale e
politica in decantazione
estetica ha luogo? Ugo Capeto ha
un timbro di voce monocorde,
modulato su di un'unica nota
l'astio cupo, l'ira, il
desiderio di veder scendere la
vendetta di Dio sull'umanità
sviata, sulla propria stirpe che
questa corruzione del genere
umano ha in gran parte
determinato. All'ombra cupa di
questo Capetingio riesce
piuttosto indifferente il lato
teologico del problema (il
terribile «perché» del
tralignamento della mala pianta
che la terra cristiana tutta
aduggia), indagato non nelle sue
componenti più riposte e
profonde, (le componenti
etico-metafisiche), ma
ricondotto ad una
interpretazione generica,
moraleggiante, risolta entro la
zona suggestiva di un simbolo
(ricorre qui, come altrove nel
poema, l'immagine dell'antica
lupa, che solo le qualità
spirituali di un Veltro - questi
non ciberà terra né peltro -
potranno ricacciare nella sua
tana infernale), nonché ad una
più circoscritta serie di
motivazioni di ordine storico
(mentre che la gran dota
provenzale... e poscia, per
ammenda, Ponti e Normandia prese
e Guascogna). Manca in lui
qualsiasi complessità, che
denoti la presenza nel suo animo
di un ansioso interrogare circa
la colpa - il tema del peccato
originale - e il nesso
indissolubile che, attraverso il
sacrificio del Cristo, unisce
colpa e redenzione. Nessuna
tonalità evangelica, nessuna eco
dello spirito di carità
predicato dal Figlio di Dio,
vibra nelle parole aspre -
intrise in ogni loro sillaba, in
ogni più riposta fibra del loro
ambito significante, di odio e
rancore, proiettanti sulla
famiglia (la « sua » famiglia)
che fa ombra (aduggia) sulla
famiglia cristiana, l'ombra di
un inesorabile, prossimo
giudizio divino (o Segnor mio,
quando sarò io lieto...) - di
questo re « cristianissimo » e
progenitore di una stirpe che
avrebbe dovuto proporsi come,
esempio, in virtù della sacra
unzione di Reims (cominciar di
costor le sacrate ossa),
all'umanità intera. È stato
osservato che, dato il tono
monocorde del suo profetizzare,
del suo delineare una biografia
e una genealogia proiettate, da
un passato di mediocrità (figliuol
fu' io d'un beccaio di Parigi...
poco valea, ma pur non facea
male) e di arbitri ancora
contenuti nei limiti dell'umano,
in un futuro straripante di
sciagure (tempo vegg'io...), Ugo
Capeto non sarebbe un vero e
proprio personaggio, non
vivrebbe di una vita autonoma
sul piano poetico, non si
staglierebbe con una
individualità decisa sulla massa
corale ed anonima dei suoi
compagni di espiazione. Questo
fatto tuttavia non intacca
minimamente il problema
dell'autenticità o meno del suo
dire, della validità poetica
della sua fosca oratoria. Questa
si risolve in poesia per diversi
motivi 1) È presente,
nell'episodio di Ugo Capeto, il
senso di una tragedia di
proporzioni bibliche o eschilee,
per cui le colpe dei padri si
ripercuotono, mostruosamente
ingigantite, sui figli e sulla
serie intera delle generazioni
che da essi discendono. Un
critico (il Bonora) é giunto a
sostenere la tesi secondo cui
nel profetare di Ugo Capeto
mancherebbe il senso del tragico
proprio in virtù del fatto che i
protagonisti del suo tenebroso
racconto agiscono quasi come
automi, le loro azioni non
essendo determinate da una
scelta drammatica, operatasi nel
chiuso delle loro coscienze, in
presenza degli imperativi della
legge morale. Questo critico ha
ragione nel sottolineare come
nelle parole di Ugo Capeto
nessun accenno possa farci
inferire la presenza di una
libertà di scelta nell'uomo e
come la storia della sua
progenitura si identifichi nella
storia di esseri che compiono il
male, votandosi in tal modo al
male eterno, senza che in questo
ruinare verso delitti sempre più
gravi appaia un barlume di
partecipazione cosciente agli
atti da loro stessi compiuti. Ma
proprio qui é la tragedia della
stirpe capetingia, così come
emerge dalle parole del suo
capostipite: egli ha dato vita
ad una progenie che ormai più
nulla ha di umano, ma che, al
contrario, la sfrenatezza degli
appetiti, la brutalità della
loro messa in opera rende in
nulla dissimile dalle bestie. 2)
Un ritmo ossessivo, martellante,
implacabile traduce in poesia
questa successione - quasi
crescita vegetale (la famiglia é
uguagliata ad una pianta, con
evidente richiamo al racconto
biblico del peccato d'origine) -
di atti delittuosi. La musica di
queste terzine é al tempo stesso
monotona e travolgente,
imprimendosi in essa la forza di
quel fato che Ugo Capeto
depreca, celebra, esalta, nella
giusta punizione che ne
costituirà il termine e quasi il
glorioso fastigio. 3) Ugo Capeto
non perde mai, nel suo eloquio,
la sacra dignità di un profeta;
questo re bastardo é qui, nel
luogo dell'espiazione, un
privilegiato, un eletto: vede
nello sguardo divino, penetra
nel buio del futuro. Di qui il
tessuto lessicale - estremamente
discordante, se considerato
nelle singole componenti, ma
accordato in maestosa sinfonia
se veduto negli effetti di
insieme, nel contrappunto della
sua implacata tematica - del suo
dire. Accanto al particolare
realistico e brutale si colloca,
senza alcuno spazio intermesso,
il termine aulico, nobilitante,
il riferimento alla sacralità
dei Vangeli. L'accostamento di
termini astratti, indicanti la
sacra dignità di una funzione
(ad esempio il fiordaliso), a
termini di un'estrema
concretezza (figliuol fu' io
d'un beccaio di Parigi... ponta...
fa scoppiar la pancia...) entro
una trama sintattica
rigorosamente scandita nel
succedersi delle terzine,
concorre a fare di questa pagina
della Commedia uno degli esempi
più indicativi dell'animus con
cui Dante considerò - nel quadro
sconvolgente di una visione che
invoca sangue e grida vendetta
sulle ingiustizie umane - gli
eventi della storia a lui
contemporanea.
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