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DIVINA
COMMEDIA
INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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INTRODUZIONE
CRITICA AL CANTO |
PURGATORIO |
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DIVINA COMMEDIA RIASSUNTO E
CRITICA
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CANTO XXIV
I tre
poeti percorrono il sesto girone
in compagnia di Forese Donati,
il quale, rispondendo a Dante,
rivela che la sorella Piccarda é
già tra le anime beate del
paradiso, e che tra i suoi
compagni di pena nella cornice
dei golosi ci sono alcuni
nobili, alcuni ecclesiastici e
un poeta lucchese, Bonaggiunta
Orbicciani. Quest'ultimo
profetizza a Dante che a Lucca,
durante il periodo del suo
esilio, una donna di nome
Gentucca gli dimostrerà una
profonda gentilezza e una
delicata amicizia. In un secondo
tempo Bonaggiunta affronta con
Dante il problema della nuova
poesia - quella del dolce stil
novo - che si sta diffondendo,
la quale ha una sola guida, il
sentimento d'amore che fornisce
l'ispirazione. Continuando nel
cammino, poiché il Poeta ha
ricordato la triste situazione
in cui si trova la città di
Firenze a causa delle lotte
interne, Forese preannuncia
l'imminente morte violenta del
fratello Corso, capo del partito
dei Neri e uno dei principali
responsabili delle discordie
civili. Subito dopo l'ombra del
goloso fiorentino si allontana
dai tre poeti per rientrare
nella sua schiera, mentre appare
un albero carico di frutti verso
i quali gruppi di anime tendono
con impaziente avidità le mani:
allorché Dante si avvicina, una
voce misteriosa grida dalle
fronde alcuni esempi di golosità
punita. I due pellegrini e
Stazio, tutti assorti nella
meditazione di quanto hanno
appena udito, giungono alla fine
del sesto girone, dove l'angelo
della temperanza assolve Dante
dal peccato di gola.
INTRODUZIONE CRITICA
Quel nodo inestricabile di
memorie dolci e di spietato
antiveder, il quale caratterizza
in maniera inconfondibile la
poesia dell'incontro di Dante
con Forese Donati, trova nei
canto XXIV la sua ferma
conclusione, in toni non
dissimili da quelli che ne
avevano definito il dispiegarsi
nella cornice del canto
precedente, e quasi un'esplicita
consacrazione. Quest'ultima
risalta in modo particolare nel
rapporto istituito fra
l'incontro di pochi attimi con
l'amico e la necessità, per il
Poeta, di dover tornare ad
affrontare gli affanni di un
vivere sempre più duro e spicca
soprattutto nella confessione,
ad opera del protagonista, della
sua sazietà di vivere non meno
che del suo indefettibile
attaccamento a Firenze, il loco
ove egli fu a viver posto, loco
che di giorno in giorno più di
ben si spolpa. È una confessione
in risposta ad una domanda
postagli da Forese Donati
(quando fia ch'io ti riveggia?),
che introduce di colpo la
familiarità di un discorrere
quotidiano nelle dimensioni
atemporali di un universo dal
quale ogni forma di sorpresa, di
imprevisto, di rinnovantesi
quotidianità è esclusa, e che
riassume in sé il significato
dell'intero episodio, la
religione delle memorie patrie e
domestiche santificata nella
religione di un volontario,
cosciente espiare. Qui la
manifestazione di un soggettivo,
stanco desiderio di approdare
quanto prima alla riva promessa
alle tempeste del vivere fa
tutt'uno con la constatazione di
un dato di fatto che amaramente
si ripercuote nell'animo
dell'esule: il progressivo
tralignare della città che a lui
e a Forese fu madre premurosa e
calda d'affetti e ne vide le
giovanili inesperienze, gli
impeti, gli errori, perdonabili
perché dovuti ad un
sovrabbondare di inesperto
vigore, ad una volontà ancora
alla ricerca dei fini alti che
ad essa sarebbero stati
proposti. Giova a questo
proposito osservare come il
desiderio di morire non si
configuri mai in Dante nei
termini dell'assolutezza
tenebrosa e disperata di un
romantico cupi o dissolvi: Esso
- è sempre motivato sia
dall'attesa del vivere vero,
quello dell'anima ormai
insediata in una certezza
raggiunta, che nessun moto del
mondo potrà più alterare, sia,
sul terreno di una concreta
esperienza etica, dal trionfo -
che appare ai suoi occhi ormai
inarrestabile sul piano dei soli
mezzi ed interventi umani - del
male nel mondo o in quel cuore
del mondo e dei suoi affetti che
è costituito per lui dalla città
fatta oggetto di amore disperato
pur nell'odio: quella città che
ha sostituito, lui vivente, agli
esempi di un agire moderato e
semplice, l'esibizione sfrontata
delle ricchezze, il prepotere e
l'arbitrio resi norma
dell'operare di ogni giorno.
Inquadrano, rilevandone gli
aspetti più salienti; questa
seconda parte dell'episodio,
l'accenno fatto da Forese alla
sorella Piccarda, vista - quasi
in tonale contrapposizione al
quadro denso di soli affetti
terrestri che aveva avuto, nel
canto precedente, il suo punto
focale nel pianger dirotto della
giovane moglie - cinta della
corona che premia le virtù nella
luminosa pace dell'alto Olimpo,
e l'immagine, squillante di
giovanile ardore, nella quale
risuonano la fedeltà ed il senso
dell'onore che furono propri
della Cavalleria, e delineante
per un'ultima volta, sullo
sfondo anonimo e mite della
folla dei golosi, la figura alta
dell'amico, nobilitata nei modi
di una similitudine (qual esce
alcuna volta di gualoppo...). In
particolare 'notiamo come nella
similitudine che ne accompagna
il perdersi nella folla delle
anime, Forese grandeggi per il
generoso traboccare in lui di un
sentimento di incondizionata
dedizione ai valori proposti
dall'amicizia e dall'amor
patrio, smentendo così la
dolorosa impressione iniziale
che di lui avevamo avuto nel
canto precedente (ed ecco del
profondo della testa...). Come
ha finemente notato il Sapegno,
entro la cornice dell'episodio
maggiore "si inserisce, secondo
un modo consueto della tecnica
dantesca", quello minore che
vede quali suoi personaggi da un
lato Bonaggiunta Orbicciani, il
rimatore lucchese rimasto nella
sua produzione letteraria di qua
dal dolce stil novo che ebbe in
Dante la sua più autorevole
espressione, dall'altro lo
stesso Poeta, registratore
fedele dei moti del suo animo,
resi persona autonoma,
oltrepassante i dati di ogni
individuale intendere o volere,
nella figura di Amore.
Tralasciando ogni più o meno
autorizzata inferenza che, in
sede di storiografia letteraria,
alcuni critici hanno voluto
trarre dalla famosa terzina 52,
proverbiale ormai per densità di
implicazioni - suscettibile
ognuna di un divergente
svolgimento interpretativo -
occorre ricordare che anche in
questo caso, non meno che in
riferimento all'episodio
principale di Forese,
l'interpretazione del Sapegno
risulta tra le più persuasive.
Il critico considera la
professione di fede del Poeta
nelle qualità sovrannaturali di
Amore come "intonata ad umiltà",
e la pone in relazione con altri
momenti del dispiegarsi della
poesia della seconda cantica,
tutti incentrati sul problema
del valore dell'esperienza
artistica. Qui Amore "è
certamente inteso in un senso
che trascende la comune materia
erotica della lirica
tradizionale e acquista il
valore ,di un'esperienza intima
e quasi religiosa". In
riferimento a quello poi che il
Sapegno, con terminologia di
derivazione esplicitamente
crociana, definisce un "punto di
vista strutturale", lo scambio
di parole tra il protagonista e
Bonaggiunta Orbicciani "avvicina
e contrappone due momenti
distinti della biografia
spirituale del Poeta; dopo
l'amareggiata e compunta
commemorazione di un periodo di
dissipazione e di traviamento, è
come se Dante ritrovasse in sé
la memoria di una fase più
remota di docile abbandono al
richiamo di un'ispirazione
celeste, quasi preannunzio e
presentimento, troppo a lungo
trascurato, della sua condizione
presente di ripiegamento
interiore e di ascesi".
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